Il paradosso umanitario, le ONG alimentano le guerre?

C’era una volta Solferino

C’è stata un’epoca, poco lontana, in cui feriti e morenti venivano abbandonati sul campo di battaglia, in cui il soldato era unicamente carne che, infine macellata, si dissanguava nella polvere e nel fango, straziato nelle viscere e senza soccorso. Henry Dunant, che assisté allo scempio della battaglia di Solferino, fu colui che si operò affinché questa barbarie avesse fine e si prestasse assistenza medica ai feriti di guerra. Il suo celebre libretto, Un ricordo di Solferino, darà il decisivo impulso alla nascita della Croce Rossa internazionale. Per questo Henry Dunant è riconosciuto come il padre dell’umanitarismo e i suoi principî di imparzialità negli aiuti e nei soccorsi offerti sono stati fatti propri dalle moderne Organizzazioni non governative (Ong) che operano in contesti di guerra.

Tuttavia i tempi, da Solferino, sono cambiati e le guerre hanno mutato natura, facendosi sempre meno convenzionali e dando luogo, in taluni casi, a persecuzioni o genocidi di fronte a cui il principio di imparzialità vacilla. Le  moderne ONG, pur facendo propri i principî di Dunant, si trovano a operare in contesti assai più complessi che in passato. Le recenti polemiche sul ruolo della organizzazioni non governative nel soccorso dei migranti nel mar Mediterraneo mostra quanto questa complessità offra ai politici senza scrupoli e ai loro accoliti la possibilità di manipolare la verità dei fatti, chiamando “scafisti” coloro che salvano vite umane. La sacrosanta difesa delle attività delle Ong che operano in contesti difficili a salvaguardia della vita umana non deve però diventare schermo dietro cui obliterare le contraddizioni della cooperazione internazionale.

Accade infatti che nel prestare soccorso si alimenti il conflitto invece di risolverlo, prolungando nel tempo la violenza che si vorrebbe combattere. Il tema, per delicatezza e attualità, non va generalizzato ed è bene affrontarlo attraverso alcuni specifici casi. Ci faranno da guida un paio libri in tal senso illuminanti: L’industria della solidarietà, scritto da Linda Polman, già operatrice umanitaria e oggi giornalista, edito in Italia per i tipi di Bruno Mondadori; e Condemned to Repeat?: The Paradox of Humanitarian Action di Fiona Terry, direttrice di Medici Senza Frontiere e oggi ricercatrice presso la Croce Rossa internazionale.

L’esempio del Biafra

Siamo in Biafra nel 1967, regione della Nigeria dove ebbe luogo una tremenda carestia tale da fare della regione un simbolo dell’emergenza alimentare africana. Sorprenderà forse sapere che il Biafra è sempre stata la regione più ricca del paese, anche grazie al petrolio, e non ha mai sofferto di alcuna mancanza di cibo. L’etnia maggioritaria, gli Ibo, sono tradizionalmente agricoltori. In virtù di questa ricchezza, il governatore Emeka Ojukwu decise di dichiarare l’indipendenza del Biafra cui seguì una guerra di secessione che ebbe, tra i suoi effetti, il blocco degli approvvigionamenti da parte del governo centrale nigeriano.

L’esercito regolare conquistò ben presto importanti località portuali e la morsa intorno a Ojukwu si strinse. Intanto l’arrivo di Ibo da ogni parte del paese, chiamati a raccolta da Ojukwu, portò a una sempre più grave crisi alimentare. Il leader ribelle ebbe allora un’idea geniale: si rivolse alla Mark Press agenzia di comunicazione con sede a Ginevra, affinché organizzasse una campagna mondiale tesa a mostrare al mondo come il governo nigeriano avesse deliberatamente aggredito il Biafra causando una crisi alimentare che stava affamando e uccidendo la popolazione. L’agenzia avviò un’intensa campagna di marketing e fecero così la loro comparsa, sui principali giornali del mondo, le foto dei bambini con la pancia gonfia che avrebbero poi riempito ogni rappresentazione emergenziale dell’Africa nei decenni successivi.

Di fronte alla crisi e ai bambini che morivano di fame, le organizzazioni umanitarie si mossero e una carovana di aiuti arrivò in Biafra. Qui viene la parte difficile. Per portare latte in polvere e medicine, le Ong potevano servirsi unicamente di un pezzetto di strada, usato come pista d’atterraggio, nei pressi del villaggio di Uli, ancora in mano ai separatisti di Ojukwu il quale, tuttavia, vietò l’atterraggio di aerei cargo e impose alle Ong l’utilizzo di vecchi aerei a elica di proprietà dello stesso Ojukwu. L’utilizzo di tali aerei doveva essere pagato dalle Ong. Con quei soldi i separatisti compravano armi. Le armi venivano stipate insieme agli aiuti umanitari e, se necessario, avevano la precedenza su questi ultimi.

Il corridoio aereo umanitario divenne così via per il rifornimento di armi ai separatisti e, quindi, consentiva il proseguimento del conflitto. Il nodo morale è tutto qui: aiutare è lecito anche quando, implicitamente, si aiuta un signore della guerra a proseguire il conflitto? E pur di aiutare è necessario scendere a patti col diavolo, pagandolo con denaro che andrà poi per l’acquisto di armi? Con quel denaro il leader secessionista riuscì a resistere fino al 1970, allungando un conflitto (e le vittime) che forse sarebbe durato solo pochi mesi. Quando l’esercito regolare ruppe ogni resistenza, Ojukwu era già in viaggio verso la Costa d’Avorio su un aereo che trasportava tremila chili di bagagli, tra cui la sua lussuosa Mercedes. Ad attenderlo oltreconfine un dorato esilio fatto di conti svizzeri riempiti coi denari ottenuti dalle organizzazioni umanitarie. Organizzazioni cui, per alcuni anni, fu poi impedito l’accesso nel paese da parte del governo nigeriano.

Un’economia morale?

Dai tempi del Biafra molto è cambiato, ma non in meglio. Oggi le organizzazioni umanitarie sono migliaia, circa quarantamila secondo l’Onu, per un giro di affari che rappresenterebbe la quinta economia mondiale: solo di fondi pubblici, stanziati dai governi dei paesi Ocse, si contano circa 150mila miliardi di dollari; dei fondi elargiti da enti privati è impossibile avere contezza. Un’economia morale, come ebbe a chiamarla Nicholas Stockon, già direttore della Oxfam International, che però si scontra con quello che fu già il problema in Biafra: per entrare in uno “spazio umanitario” bisogna pagare, e pagando si finanziano signori della guerra, traffici, corruttele, che di fatto hanno come risultato l’allungamento della durata dei conflitti. E’ una sorta di mafia nella quale i signori della guerra chiedono il “pizzo” alle organizzazioni umanitarie che, accettando di giocare alle loro regole, entrano a far parte del meccanismo criminale. Questa “economia morale” mostra quindi una implicita amoralità che spinge le organizzazioni umanitarie a una duplice contraddizione. La prima, si è visto, è quella del finanziare le guerre le cui vittime sarebbe destinata a curare. La seconda è quella di aiutare criminali di guerra a trovare le risorse necessarie per riorganizzarsi. E’ il caso del conflitto ruandese.

Il caso ruandese

Riassumere qui la vicenda del conflitto ruandese e della sue conseguenze sulla regione dei Grandi Laghi è impossibile. Si deve però ricordare una data, il 6 aprile del 1994, quando ebbe inizio il genocidio ruandese, quello in cui gli estremisti Hutu presero a fare a pezzi i compatrioti Tutsi a colpi di machete. In tre settimane si registrarono ottocentomila morti, i fiumi che dalle colline scendevano verso il lago erano rossi di sangue. Tutto accadde abbastanza in fretta e nessuno, o quasi, si accorse del crimine. Poi i Tutsi rifugiatisi in Uganda organizzarono un esercito che cacciò gli Hutu i quali fuggirono in massa, chi perché coinvolto nei crimini, chi per il timore di rappresaglie. Due milioni di Hutu ruandesi varcarono così i confini nazionali. L’eco del disastro arrivò nel placido primo mondo e reporter da ogni dove raggiunsero la regione. Poterono così filmare l’esodo degli Hutu, donne, vecchi e bambini in fuga, inseguiti dall’esercito Tutsi. Le immagini di una interminabile fila di camion, carretti, biciclette, persone a piedi, vecchi caricati su carriole, fece il giro del mondo. Oltre confine, specialmente nella Repubblica democratica del Congo (allora Zaire) i rifugiati allestirono i primi campi. Dalle televisioni di mezzo mondo la gente poté vedere la tragedia di un popolo braccato ma quelli erano in realtà i perpetratori di un genocidio.

Linda Polman, presente a Goma, ricorda quel periodo: “Gran parte dei giornalisti scriveva reportage strazianti. Non capivano, o non volevano capire, il contesto politico. Lo stesso valeva per i loro principali informatori, gli operatori umanitari occidentali, in gran parte giovani inesperti giunti nella regione. Al pubblico occidentale gli Hutu venivano presentati soprattutto come vittime innocenti del bacillo del colera. Uno spettacolo drammatico in cui il nemico era il virus e la salvezza gli aiuti umanitari. Una crisi senza buoni né cattivi, in cui figuravano solo le vittime”. Eppure i cattivi, i fautori del genocidio, c’erano.

In poco tempo il campo per rifugiati di Goma divenne una vera e propria città dove i leader Hutu, responsabili e mandanti del genocidio, prosperavano grazie agli aiuti: “Su tutte le razioni alimentari distribuite dalle organizzazioni umanitarie il governo Hutu prelevava un’imposta di guerra con la quale pagava l’esercito”, spiega ancora la Polman. In breve tempo una nuova milizia Hutu fu pronta, armata e ben nutrita, e dal campo partivano incursioni di milizie Hutu decise a portare a termine la pulizia etnica dei Tutsi. La violenza degli Hutu non veniva punita ma il clima di insicurezza persuadeva gli operatori umanitari a non trattenersi nei campi dopo il tramonto. Fiona Terry, all’epoca operatrice di Medici senza Frontiere, descrive nel libro Condemned to Repeat?: The Paradox of Humanitarian Action, le assurdità di quella situazione: “Per gli orari notturni, considerati troppo pericolosi per il personale occidentale, le organizzazioni umanitarie assunsero Hutu. Ma sospettavamo che le infermiere notturne uccidessero i pazienti nemici che non erano abbastanza fedeli alla causa Hutu”.

Conclusioni

Fiona Terry vince nel 2006, per il suo libro, il Grawmeyer Award per le “idee che sviluppano l’ordine mondiale”. La sua idea è semplice quanto rivoluzionaria: le organizzazioni umanitarie devono avere un’etica nuova. Soccorrere gli assassini e aiutarli a continuare nella loro opera di sterminio non è giustificabile nemmeno in nome dell’imparzialità degli aiuti. E tantomeno è accettabile che il “supermarket degli aiuti” porti le Ong a una competizione al ribasso in cui le vite umane diventano denari da spartirsi. Una riflessione che oggi, in un contesto di criminalizzazione delle Ong da parte di molti governi, anche europei, assume un’urgenza particolare. Solo un’etica nuova, lontana dalla febbre dei contratti, dal business umanitario, dall’imparzialità che tutto assolve, può dare all’azione umanitaria rinnovata forza e credibilità affinché nessun governo, nessun politico, nessun “cattivista” di turno, possa trovare giustificazione della propria disumanità nelle storture dell’attività umanitaria.

Potere dell’immagine – L’immagine usata per illustrare questo articolo rappresenta un campo rifugiati Hutu in Tanzania, si tratta di una foto scattata nel 1994 dal celebre fotografo Sebastiao Salgado. Quest’immagine accompagnò molti articoli sulla guerra in Ruanda nei quali i genocidiari venivano rappresentati come vittime. 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

Leggi anche

cultura russa

Non siamo in guerra con la cultura russa

C'è un conflitto che ci oppone alla Russia, ma non siamo in guerra con la cultura russa....

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com