CINEMA: “Mustafa”. La lotta di Cemilev, simbolo dei tatari di Crimea

Come riassumere in 90 minuti una vita di lotta – quella di Mustafa Cemilev, per il diritto dei tatari di Crimea di ritornare nella loro patria e di viverci liberamente? Ci è riuscito brillantemente Ahmed Sarykhalil, giovane regista tataro, che ha dedicato il suo primo lungometraggio “Mustafa” (Ucraina, 2016) alla storia di quello che è considerato il leader e il simbolo del popolo tataro di Crimea.

Per raccontare la vita del personaggio, il regista gioca ad alternare materiale prettamente documentaristico (foto, filmati e interviste originali), a ricostruzioni di episodi più personali della vita di Cemilev, interpretato dall’attore ucraino Maxim Pasichnyk. Ne risulta una testimonianza accurata ed polifonica (sono 26 gli attivisti e i dissidenti intervistati nel corso del film), ma anche un documentario estremamente coinvolgente che ci permette di immedesimarci nel protagonista proprio durante le situazioni più critiche della sua vita.

Nato nel 1943 in un villaggio della Crimea allora occupata dai nazisti, Mustafa Cemilev ha solo sei mesi quando viene deportato assieme a tutta la sua famiglia e circa 180 000 altri tatari di Crimea nell’Asia Centrale. Il film ci porta in Uzbekistan dove Cemilev, ancora diciottenne, sarà tra i fondatori dell’Unione dei Giovani Tatari di Crimea, organizzazione clandestina che, promuovendo la cultura e la storia tatara, chiede il diritto al ritorno in patria. In seguito, il regista ci fa rivivere i momenti più importanti della vita del dissidente tataro: il suo primo arresto nel 1966, gli anni di prigionia in Siberia durante i quali intrattiene un’amicizia epistolare con Andrej Sakharov, e il lunghissimo sciopero della fame durato 303 giorni, al quale egli sopravvive solo perché alimentato a forza.

Si delinea così un ritratto estremamente personale di Cemilev, in cui spiccano il coraggio e la forza di volontà, ma anche l’intelligenza e il sangue freddo con i quali affronta le situazioni più difficili, ad esempio facendosi beffe del medico di prigione a cui era stato affidato il compito di valutare la sua “sanità mentale”. Un personaggio dall’aura quasi eroica, ma anche profondamente cosciente dei limiti delle proprie forze e delle proprie azioni.

Liberato durante la perestroika, nel 1989 Cemilev riesce per primo a ritornare con la famiglia in Crimea, organizzando in seguito il ritorno in patria degli altri tatari vittime delle deportazioni staliniane. Nel 1991, i tatari di Crimea fanno di Cemilev il loro rappresentante ufficiale nominandolo presidente del Mejlis, il massimo organismo di rappresentanza della comunità tatara di Crimea, carica che ricoprirà fino al 2013.

L’azione del documentario si conclude nella Crimea occupata del maggio 2014, quando a Cemilev viene rifiutato l’ingresso al confine di fatto tra Ucraina e Crimea. Egli è inoltre bandito per 5 anni dal territorio della Federazione Russa per essersi opposto al referendum-farsa che aveva sancito l’annessione della penisola alla Russia. Un filmato originale mostra la protesta di un centinaio di attivisti tatari che cercano di sfondare un check-point russo nel vano tentativo di aiutare Cemilev a rientrare in Crimea. 

Oggi Mustafa Cemilev risiede a Kiev, dove continua la sua attività politica in quanto membro del Parlamento ucraino. Dal 2014, tra i 15 000 e i 30 000 tatari hanno nuovamente abbandonato la Crimea per sottrarsi all’occupazione russa; nel 2016, il Mejlis è stato dichiarato fuorilegge, e tacciato di essere un'”organizzazione estremista incitante all’odio verso la Russia e al nazionalismo etnico”. I processi, gli arresti e le sparizioni di attivisti tatari sono all’ordine del giorno in Crimea. Come il regista lascia intendere alla fine del film, mostrandoci un Cemilev inquieto e silenzioso che si allontana per la sua strada, la lotta dei tatari di Crimea per il diritto alla propria patria non si è ancora conclusa. E quella di Cemilev è di nuovo una vita in esilio.

Chi è Laura Luciani

Nata a Civitanova Marche, è dottoranda in scienze politiche presso la Ghent University (Belgio), con una ricerca sulle politiche dell'Unione europea per la promozione dei diritti umani e il sostegno alla società civile nel Caucaso meridionale. Oltre a questi temi, si interessa di spazio post-sovietico in generale, di femminismo e questioni di genere, e a volte di politiche linguistiche. E' stata co-autrice del programma "Kiosk" di Radio Beckwith.

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