POLONIA: Il primo editoriale di "Kultura" (1947)

da poloniaeuropae


Evocate nell’introduzione al primo quaderno di “Kultura”, le voci dei due principali pensatori europei del primo e del secondo dopoguerra (Valéry con un testo del 1919 e Croce del 1946), ci dimostrano come il pensiero del crepuscolo o della crisi della civiltà in cui viviamo è naturale nei tempi che emergono da ogni sconvolgimento mondiale. In ambedue le voci echeggia la profonda tristezza di persone che hanno consacrato tutte le loro forze e capacità al lavoro di approfondimento e di elevazione della cultura europea, per sopravvivere infine ai giorni del pericolo mortale e della minaccia. Ma, al tempo stesso, vibra in loro una grande forza, la forza delle convinzioni incrollabili, dei legami e della fede nonostante «i tempi del disprezzo», a dispetto «dell’invincibile imminente barbarie».

«Tutto all’Europa è venuto e tutto da essa uscì. Tutto, o quasi tutto» — scrive Valéry. «Combattere rimanendo sulla propria postazione pro aris et focis, vale a dire per le nostre chiese e le nostre case» — esorta Croce, l’ottantenne filosofo napoletano, il più ostinato nemico del fascismo italiano e di Mussolini. Non sono forse impregnate allo stesso spirito le splendide parole di André Malraux, pronunciate all’inaugurazione della riunione dell’UNESCO a Parigi? Ascoltiamole: «L’Europa che il mondo finora pensava nelle categorie della libertà, oggi viene considerata come uno scherzo del destino. Ma ci dimentichiamo troppo spesso che non è la prima volta che ciò accade nella storia d’Europa. La situazione non era affatto migliore durante le precedenti invasioni. Quando l’esercito mongolo di Genghiz Khan avanzava su Vienna, il destino dell’Europa era forse più luminoso? O era migliore quando Tamerlano si spingeva alle porte dell’Europa?

Oppure dopo la battaglia di Nicopoli2 o dopo la battaglia di Mohács? Eppure allora si trattava di vita o di morte e non della rivalità tra culture e dell’eredità dello spirito. Era più luminoso — chiedo — il destino dell’Europa durante la battaglia di Londra? C’era forse qualcuno in Inghilterra o addirittura in Francia che nel momento della battaglia di Londra dubitasse dei fondamentali valori dell’Occidente? Non è vero che l’uomo europeo è morto. Ma è abbandonato, poiché lui stesso ha ripudiato i valori fondamentali, e si prepara alla morte, così come si preparavano alla morte le classi dirigenti degli antichi imperi quando perdevano la volontà di vivere». Le tre voci — la latina, la franco-italiana — non esauriscono il ricco ventaglio degli atteggiamenti ideali nei periodi di caos e di ricerca che caratterizzano l’età postbellica. Accanto a parole come fede e attaccamento, vengono pronunciate parole di odio e di ripulsa. Accanto ad atteggiamenti che generano in profondità cultura, crescono come funghi dopo la pioggia atteggiamenti chiaramente anticulturali. Accanto alle correnti di rinascita e di rinnovamento si susseguono opache onde di decomposizione e distruzione. Dopo la prima guerra mondiale, in Europa andava di moda il catastrofismo della civiltà alla tedesca. Si incuneava in menti stanche e svogliate, si infiltrava nelle pagine delle opere filosofiche, si arrampicava furtivamente sulle cattedre universitarie. Oggi sappiamo qual era il suo scopo. Attraverso tale catastrofismo apocalittico l’imperialismo e il nazionalismo tedeschi volevano mettere in ginocchio tutte le nazioni europee. Indebolire in loro la volontà di lottare, avvelenarle col pensiero della morte. Per quale ragione combattere, che cosa difendere di fronte all’universale Untergang des Abendlandes? Sotto il tacco dell’occupazione hitleriana, in Europa si risvegliò il pensiero della resistenza. Purtroppo non è durato abbastanza a lungo per far fronte alla nuova minaccia. Alla fine di questa guerra il catastrofismo tedesco cede il posto alla “innovazione” sovietica. È un “innovamento” sicuro di sé, dinamico e antitradizionalista, di cui Croce dice in generale che «non è l’elevamento della tradizione a un livello più alto, bensì il fatto di rompere con essa, il che significa instaurare la barbarie; e questa “innovazione” arriva quando le forze selvagge e malvagie che, sebbene tenute a bada, sono presenti in ogni società, prendono a un certo punto la rincorsa e acquistano vigore per, infine, dominare e comandare. Tali forze sono incapaci di risolvere in sé il problema dell’attuale civiltà, innalzandola a un livello più alto, ma viceversa la rifiutano e non solo opprimono e perseguitano gli uomini che ne sono la personificazione, ma osano addirittura distruggere le opere che stimolano l’incessante arricchimento della cultura; osano distruggere i monumenti della bellezza, i sistemi di pensiero e tutte le testimonianze
del glorioso passato; osano chiudere le scuole, saccheggiare e bruciare i musei, le biblioteche e gli archivi e fare cose di cui siamo stati testimoni e che riscontriamo ancora oggi». Passeranno senz’altro di nuovo molti anni prima che le nazioni dei due emisferi capiscano che il “rinnovamento” sovietico è uno strumento per anestetizzare la cultura europea, così come a suo tempo il catastrofismo tedesco è stato lo strumento della sua disintegrazione. Stanno arrivando tempi di nuovo indebolimento della volontà, di avvelenamento con pensieri di morte. Allora, per che cosa lottare, che cosa difendere dinanzi all’universale Ex Oriente lux?

In queste condizioni, il ruolo, le finalità e i compiti di “Kultura” sono sufficientemente chiari e non richiedono una spiegazione molto dettagliata. “Kultura” desidera far capire ai lettori polacchi — avendo scelto l’emigrazione politica, essi i sono trovati fuori delle frontiere del proprio paese natale — che la cerchia culturale nella quale vivono non è un ambito morto. “Kultura” desidera raggiungere i lettori polacchi in patria e rafforzare in loro la fede che i valori che sono a loro vicini non sono ancora caduti sotto i colpi del piccone
della forza bruta. “Kultura” vuole cercare nel novero della civiltà occidentale quella «volontà di vivere, senza la quale l’uomo europeo morirà, come nel passato morirono le classi dirigenti degli antichi imperi».

Traduzione di Marzenna Maria Smoleńska Mussi, Renzo Panzone

da poloniaeuropae, rivista a cura di Paolo Morawski

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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