CALCIO: Sentenza Port Said in Egitto, dieci condanne a morte

La settimana scorsa, a distanza di oltre cinque anni, sono arrivate le sentenze relative alla tragedia di Port Said del primo febbraio 2012, in cui a seguito della partita tra la squadra locale l’al-Masry e i campioni d’Egitto dell’al-Ahly morirono 74 tifosi del gruppo Ahlawy, storico gruppo di sostenitori della squadra del Cairo; una vicenda con molti aspetti ancora da chiarire, destinata a caratterizzare la storia dell’Egitto in modo indelebile.

Nel febbraio del 2012 la rivoluzione che aveva allontanato Mubarak non aveva ancora compiuto il primo anniversario e il compito di costruire il nuovo Egitto era condiviso tra le forze rivoluzionarie che cercavano un equilibro impossibile da raggiungere. Nel frattempo il campionato di calcio era andato avanti e l’al-Ahly, il club più vincente del proprio paese, si apprestava a vincere l’ennesimo titolo con relativa facilità.

Gli ultras dell’al-Ahly avevano avuto un ruolo politico cruciale, a livello teorico e operativo, nella cacciata di Mubarak. La curva dove il gruppo organizzato aveva la propria casa – chiamata Curva Nord in omaggio all’avanguardistico movimento italiano – era stata, come altre volte nella storia, una palestra per i movimenti di opposizione a Mubarak. Gli strumenti di tifo erano stati usati come megafono per amplificare le voci di dissenso verso Mubarak e i suoi metodi e le battaglie settimanali con la polizia di regime avevano “allenato” i dissidenti alle azioni dirette anti-governative del gennaio 2011.

Quanto successo a Port Said ha pochissimi precedenti per quanto successo al termine dei 90 minuti di gioco poiché al termine della partita, vinta per 3-1 dagli ospiti, i tifosi di casa avevano invaso il campo per dirigersi verso il settore ospiti, pronti a caricare gli ultrà dell’al-Ahly praticamente indisturbati. La polizia, presente in misura piuttosto esigua nonostante la rivalità esistente tra i due gruppi ultrà, decise di non intervenire lasciando le due tifoserie ad affrontarsi indisturbate. Questa decisione nel corso degli anni a seguire è stata largamente criticata, tanto da destare più di qualche sospetto che l’azione fosse stata premeditata e avallata dalle forze dell’ordine, che avevano peraltro permesso l’ingresso di armi nello stadio.

A corollario di questa scelta delle forze dell’ordine, a destare sospetto fu anche l’improvviso spegnimento dell’impianto d’illuminazione del terreno di gioco, inoltre il settore ospiti era chiuso con delle catene, in modo che per gli ultras ospiti era diventato impossibile scappare. I testimoni di quanto successo dopo l’invasione di campo raccontano scene di mattanza più frequenti sui campi di battaglia che su quelli di gioco. I tifosi dell’al-Masry, lasciati liberi di agire, hanno massacrato con coltelli e pietre quelli ospiti, che nel frattempo cercavano la fuga in ogni modo, anche lanciandosi dal secondo anello in cui erano posizionati.

Alla tragedia, come spesso accade, sono successe le inchieste e i proclami di giustizia, con metodi piuttosto discutibili. Vittime dell’aggressione sono state indagate e condannate erroneamente come fossero gli aggressori, e nessun’autorità è stata ritenuta responsabile per non aver saputo tenere il controllo dell’ordine pubblico. Il campionato, inoltre, è stato sospeso per oltre un anno, e quando è ricominciato, ai tifosi non è più stato concesso di assistere alle partite dal vivo, obbligo che rimane tutt’ora in vigore.

L’ultimo capitolo di questa vicenda è arrivato la settimana scorsa: dieci tifosi sono stati condannati a morte, mentre altri 22 sono stati condannati a pene che ammontano fino a 10 anni di carcere. Una sentenza che sicuramente non chiarisce i punti ancora oscuri e sulla quale pesa ancora l’ombra dell’interferenza politica.

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Chi è Matteo Marchello

Nato a Lecce, vive a Londra. Scrive di calcio per Trappoladelfuorigioco.it ed East Journal.

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