TURCHIA: C’eravamo tanto amati. Chi è Fethullah Gülen?

Gülen sì, Gülen no, Gülen chi? A prescindere che sia davvero lui, Fetullah Gülen, il deus ex machina del tentato golpe del 15 luglio, l’energica reazione di Erdoğan contro i suoi supposti seguaci, i Fethullahçı, costituisce indubbiamente l’ultimo stadio del principale scontro di potere nella Turchia del XXI secolo. Per provare a comprendere questa lotta intestina, è necessario porsi una domanda: chi è Fetullah Gülen?

Gülen, l’imam buono

Gülen sembra interpretare ottimamente quello che in Occidente, specie tra gli opinionisti meno raffinati, si tende a chiamare Islam moderato. Certificate dal suo attivismo internazionale e dai suoi incontri prestigiosi con papi e capi di altre religioni, le sue posizioni ufficiali lo fanno corrispondere quasi integralmente all’idealtipo auspicabile dell’imam riformista e conciliante: non solo condanna il terrorismo a matrice islamista, ma deplora anche l’utilizzo dell’Islam come ideologia politica; sostiene che tra donne e uomini vi sia una differenza biologica, e dunque di ruoli di genere, ma che debbano avere gli stessi diritti; proclama la piena compatibilità tra Islam e democrazia; inoltre, riguardo al conflitto israelo-palestinese, la sua apertura verso Gerusalemme è notoriamente così ampia che in patria è stato accusato di essere pro-Israele. Proprio la sua visione della politica estera turca rende Gülen, nella visione occidentale, la quarta colonna perfetta: da sempre sostiene ardentemente l’entrata della Turchia nell’UE e il rafforzamento della liason con gli Stati Uniti, dove risiede in auto-esilio dal 1999.

Hizmet, o il Movimento Gülen

Le posizioni accomodanti di Gülen hanno fatto sì che la sua associazione caritatevole, Hizmet (“servizio”, in turco), sia stata definitauna delle facce più incoraggianti dell’Islam odierno”. Tuttavia, Hizmet non pare soltanto una confraternita di fedeli dedita al “miglioramento dell’individuo verso un cambiamento positivo nella società”, in quanto sembra non disdegnare anche attività più mondane. Il Movimento Gülen è una macchina da guerra, non solo ideologica, ma anche economico-politica, un impero economico da 25 miliardi di dollari ed una rete di milioni di simpatizzanti, non solo in Turchia, ma anche in Bosnia, Pakistan, Stati Uniti. I paragoni con la nostrana Opus Dei sono ricorrenti, specialmente a causa del conclamato orientamento pro-business: in ambito accademico, Hizmet viene addirittura presa come caso archetipico di capitalismo islamico.

Cosa Hizmet sia in realtà rimane in parte oscuro e soggetto a differenti interpretazioni, dalla coloritura più o meno complottista. Nel 2011, due giornalisti turchi, Ahmet Sik e Nedim Sener, vennero arrestati con l’accusa di appartenere ad un’associazione eversiva ultra-nazionalista, impegnata a pianificare un colpo di stato, deja vu ricorrente nella storia turca contemporanea. Un tempismo curioso: stavano per dare alle stampe L’Armate dell’Imam, un libro-inchiesta su Hizmet e la sua infiltrazione nelle istituzioni turche: l’80% dei membri della polizia turca sarebbero stati simpatizzanti di Gülen. Oltre a magistratura e forze armate, un altro feudo di Gülen sarebbe l’educazione, con le dershane (scuole islamiche) e le università che a lui si ispirano a costituire il fulcro della sua influenza nelle cose turche. Un’influenza preoccupante per gli oppositori di Gülen, che citano spesso un suo discorso del 1999, in cui il predicatore consigliava di “muoversi nelle arterie del sistema senza farsi notare, finché non si è raggiunto il potere”. Ma l’imam ha sempre sostenuto che quel discorso sia stato contraffatto ad hoc.

Dagli amici mi guardi Dio: Gülen ed Erdoğan

bbbIn un’intervista uscita ieri sul Corriere della Sera, Gülen ha rinnovato la sua forte critica all’alleato di un tempo, con cui a partire dalle elezioni del 2002 aveva condiviso (e sostenuto finanziariamente) il sogno di una Turchia islamica e democratica dentro l’Unione Europea. Il rapporto di odi et amo tra lui ed Erdoğan è la dorsale su cui si muove tutta la politica turca del XXI secolo. Uno scontro che non si gioca su elementi religiosi, bensì su questioni molto più prosaiche di potere interno e visioni strategiche. Come ha riassunto brillantemente il nostro Carlo Pallard su VICE, “se si considera che oggi la principale frattura nella vita politica turca è quella tra l’AKP di Erdoğan e la comunità di Gülen, è inoltre poco utile ragionare in termini ideologici e sulle contrapposizioni tra religiosi e laici, conservatori e progressisti. Non esiste, infatti, una vera differenza ideologica tra le due fazioni che si stanno scontrando”. Entrambi i leader credono nella possibilità di una commistione fruttifera tra Islam e democrazia, nessuno dei due aspira ad una laicità statale assoluta. Dunque, se dietro il golpe ci fosse davvero Gülen, sarebbe errato interpretare i militari golpisti come una “forza benevola, laica e progressista”. Un immaginario kemalisteggiante a cui l’Occidente è molto legato, quello dell’esercito turco come nume tutelare della democrazia liberale, mentre, invece, quando i colpi di stato hanno avuto effettivamente successo, come nel 1980, la realtà è stata ben diversa.

Lo scontro era venuto in superficie nel 2013, quando la magistratura, permeata dalla rete di Gülen, aveva lanciato un’inchiesta su un giro di tangenti che aveva visto implicati buona parte della nomenklatura dell’AKP di Erdoğan; uno sgarbo che aveva inaugurato una sequela di colpi bassi e contro-reazioni. Non soltanto politica interna: secondo alcuni analisti, sarebbero soprattutto le divergenze in campo geopolitico a costituire il terreno di scontro tra Gülen e l’attuale dirigenza turca. La richiesta di estradare Gülen, avanzata da Erdoğan agli Stati Uniti, che sembra un remake di un altro celebre caso in cui Ankara aveva chiesto, all’Italia in quel caso, l’estradizione di un leader politico ritenuto sovversivo, può essere una svolta negli equilibri internazionali. Rappresenta un momento di alta tensione tra Washington e il suo storico alleato mediorientale, soprattutto considerando che la partecipazione alla NATO da parte della Turchia è sempre stata caratterizzata da una certa ambiguità. Per ora, i nordamericani prendono tempo, ma, dopo il golpe, qualcosa nella politica estera turca sta già cambiando.

La pulizia etica di Erdoğan

Gülen ha categoricamente negato d’essere il deus ex machina del golpe, avanzando anche l’ipotesi che possa essere stata una trama ordita da Erdogan ed il suo entourage allo scopo di crearsi un casus belli perfetto per far scattare le Grandi purghe. Una dietrologia sposata anche da numerosi media occidentali. La velocità con cui sono state eseguite le epurazioni ha effettivamente suscitato il dubbio che le liste di proscrizione fossero già pronte da tempo, come ipotizzato anche dal Commissario UE per l’integrazione della Turchia, Johannes Hahn. A rinfocolare questa visione ha contribuito il primo commento a caldo del presidente Erdoğan, che aveva definito il golpe “un regalo di Dio”. Tradotto, il buon motivo per inaugurare una pulizia etica delle istituzioni e della società civile, una caccia alle streghe finalizzata a setacciare ed inibire definitivamente i Fethullahçı.

Chi sia il Grande Vecchio dietro il tentato golpe rimane e forse rimarrà a lungo un mistero. Ciò che è certo è che la notte del 15 luglio cambierà in maniera irreversibile gli equilibri di un paese oberato da circa tre milioni di profughi, impegnato nella repressione violenta del PKK, sempre meno velatamente accusato di sospetta negligenza nel contrasto all’ISIS e piagato da attentati terroristici sempre più frequenti. E, capro espiatorio o grande burattinaio, Fetullah Gülen continuerà a rappresentare un ostacolo per i disegni egemonici dell’attuale dirigenza turca.

Chi è Simone Benazzo

Triennale in Comunicazione, magistrale in Scienze Internazionali, ora studia al Collegio d'Europa, a Varsavia.

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