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KOSOVO: La guerra dei simboli. Inaugurata a Mitrovica la statua del principe serbo

E’ stato un giorno di San Vito particolare per gli abitanti del lato nord della città kosovara di Mitrovica, quello abitato dalla comunità serba. Nella data in cui ricorre la storica battaglia del Kosovo, il 28 giugno, un’enorme statua alta 7 metri e mezzo del principe Lazar, condottiero della resistenza anti-turca, è stata inaugurata nella piazza della città del Kosovo settentrionale. Una folla di persone ha assistito all’evento, che ha visto la partecipazione di tutti i maggiori leader politici dei serbi del Kosovo, inclusi il direttore dell’Ufficio per il Kosovo nel governo serbo, Marko Đurić, i ministri serbi del governo di Pristina e le autorità locali. L’intonazione di canzoni tradizionali e il dispiegamento di bandiere nazionali serbe hanno fatto da cornice ad una celebrazione molto sentita da tutti i serbi, ancora di più in questa regione, quella a nord del fiume Ibar, dove la minoranza serba difende la propria identità e rifiuta l’integrazione nello stato kosovaro.

La scelta di porre la statua del principe Lazar a Mitrovica ha una forte valenza simbolica e un sottinteso scopo politico. Lazar Hrebeljanović è stato il comandante delle forze cristiane nella storica battaglia della Piana dei Merli contro gli ottomani del 1389, nella quale perse la vita. Lazar è perciò considerato una figura mitica, santificato dalla Chiesa ortodossa. Costruire una sua statua in Kosovo vuol dire riaffermare la presenza passata, presente e futura dei serbi nella ormai ex-provincia. La statua, non a caso, guarda e indica verso sud, in direzione del luogo dove la battaglia si è consumata, ma anche del luogo dove ormai la comunità serba è sempre più sparuta, data la netta dominanza degli albanesi in tutto il resto del Paese. Alcuni media serbi hanno salutato la notizia parlando con enfasi del “ritorno” del principe Lazar in Kosovo, esaltando il messaggio alla base di questa costruzione. Una costruzione voluta, evidentemente, dallo stesso governo di Belgrado, che usa la retorica nazionale per coprire una realtà politica ben poco gloriosa.

Il nord del Kosovo, dove vivono circa 100.000 serbi, è difatti oggi una regione abbandonata a se stessa, un limbo prigioniero dei negoziati senza fine tra Belgrado e Pristina, in cui manca ogni prospettiva futura. L’Accordo di Bruxelles del 2013 e i successivi aggiornamenti avevano previsto la creazione di un’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, che avrebbe dotato la comunità di alcune forme di autonomia. Le forti proteste delle opposizioni nel parlamento di Pristina hanno bloccato da tempo il processo; la stessa Belgrado, inoltre, ha ormai abbandonato i serbi del Kosovo, considerati un peso per il premier Aleksandar Vučić nella sua strada verso l’integrazione europea. La costruzione di un’enorme statua di un eroe nazionale è dunque un tentativo di solleticare il sentimento nazionalista di una popolazione che, in realtà, avrebbe bisogno di altro, a partire da opportunità economiche, lotta alla corruzione, forme di autonomia politica e dialogo trasparente e costruttivo con Belgrado e con Pristina.

L’uso dei monumenti per fini di legittimazione e consenso politico non è affatto una prerogativa serba. Il Kosovo è disseminato di statue dedicate ai combattenti dell’UÇK, l’Esercito di liberazione del Kosovo, nel quadro di un processo di costruzione dell’identità nazionale cruciale in un Paese di recente nascita. Il leader del partito d’opposizione Alleanza per il Futuro del Kosovo, nonché ex comandante UÇK, Ramush Haradinaj, ha recentemente dichiarato la necessità di costruire un monumento sulla Piana dei Merli, vicino all’imponente Gazimestan eretto in epoca jugoslava, che ricordi gli albanesi caduti nella battaglia contro gli ottomani. La sfida dei simboli è tutt’altro che conclusa, scontrandosi con la realtà di un Paese che avrebbe bisogno di interventi ben più concreti.

Chi è Riccardo Celeghini

Laureato in Relazioni Internazionali presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università Roma Tre, con una tesi sui conflitti etnici e i processi di democratizzazione nei Balcani occidentali. Ha avuto esperienze lavorative in Albania, in Croazia e in Kosovo, dove attualmente vive e lavora. E' nato nel 1989 a Roma. Parla inglese, serbo-croato e albanese.

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