SERBIA: La collaborazione con la NATO, tra questione nazionale e lotte di potere

Da BELGRADO – Lo scorso 19 febbraio il parlamento serbo ha ratificato un accordo di collaborazione con la NATO. L’accordo, che era stato siglato nel marzo 2015, riguarda lo scambio di informazioni e attrezzatura militare tra l’esercito serbo e l’organizzazione atlantica. Tra le altre cose, prevede l’immunità diplomatica del personale NATO sul suolo serbo, così come per il personale serbo che risiede nei paesi NATO.

Tuttavia, la notizia ha fatto molto discutere. Per la popolazione, infatti, è ancora fresca la memoria circa i bombardamenti della primavera del 1999, quando le forze aeree dell’operazione “Allied Force” attaccarono senza l’avallo ONU la Repubblica Federale di Jugoslavia, portando così alla fine della guerra in Kosovo ed aprendo la strada alla sua successiva indipendenza.
In altre parole, la questione della NATO in Serbia è e sarà sempre indissolubilmente legata alla questione nazionale del Kosovo, e quindi all’idea di martirio ad esso connessa, che ha contribuito a plasmare un disprezzo più o meno diffuso verso l’organizzazione militare internazionale.

In questi giorni, infatti, il governo di Belgrado viene accusato da alcuni partiti dell’opposizione di aver tradito il popolo serbo, di aver dimenticato le vittime dei bombardamenti e quindi di essersi sostanzialmente “venduto al nemico”.

L’intera faccenda non fa che accentuare la contrapposizione, spesso ricorrente anche in occidente, per cui da un lato c’è chi si schiera con gli USA, la NATO e l’UE e dall’altro, con la Russia di Putin. I partiti e movimenti nazionalisti serbi che hanno deciso di protestare – tra cui il DSS, Dveri e Obraz – hanno portato in piazza le effigi del presidente russo nonché bandiere della federazione per riaffermare la propria “fratellanza” con la Russia, piuttosto che con “coloro che uccisero i bambini serbi”.
Per quanto tale dicotomia possa sembrare se non accettabile per lo meno comprensibile c’è da dire che, di fatto, tali accordi non rappresentano nulla di nuovo. La Serbia, infatti, continuerà ad essere militarmente neutrale, non ha firmato alcun accordo di pre-adesione alla NATO e il processo di cooperazione con l’organizzazione atlantica va avanti da dieci anni.

Sin dal dicembre 2006, infatti, la Serbia aderisce al programma di Partenariato per la Pace, progetto di cooperazione inter-statale a cui partecipano tutti i paesi dell’ex blocco sovietico. All’epoca, il presidente serbo era Boris Tadic, del Partito Democratico, oggi all’opposizione. Un anno più tardi, nel 2007, all’epoca della presidenza del consiglio di Vojislav Koštunica, dei DSS (anch’essi oggi all’opposizione), vennero definiti i settori di cooperazione con la NATO.

Oggi come allora, nessuno degli accordi presi e siglati prevede che la Repubblica di Serbia entri a far parte dell’organizzazione militare. Inoltre, alcuni dei movimenti dell’opposizione scesi in piazza a contestare la firma di questi accordi rappresentano quelle stesse forze politiche che iniziarono il processo di cooperazione con la NATO. L’unica cosa ad essere cambiata sono i ruoli: chi era al governo allora oggi è all’opposizione e viceversa.

Il vero motivo per cui se ne discute tanto, dunque, sembrano essere le imminenti elezioni parlamentari anticipate. Queste sono state fissate per il 24 aprile e come sempre l’opposizione appare poco compatta ed organizzata. Nonostante non esistano ancora coalizioni ufficiali, all’interno dell’opposizione convivono forze filo-europee, come i DS, e alcuni piccoli partiti nazionalisti, come Dveri.
Ad ogni modo, non sembra possibile ipotizzare che qualcuno di questi partiti minori riesca a guidare una coalizione con un programma politico vincente per le prossime elezioni e la protesta contro gli accordi con la NATO sembra quindi il tentativo di stimolare la sensibilità della popolazione su una questione nazionale che viene presentata tuttora come una ferita aperta. Dall’altro lato, la consapevolezza del primo ministro Aleksandar Vučić era proprio questa: indire elezioni anticipate nel breve periodo sapendo che l’opposizione sarebbe stata impreparata e disorganizzata.

Anche in questo caso, pare evidente che in Serbia le questioni nazionali vengano sfruttate all’occorrenza dalle forze politiche che di volta in volta ambiscono alla posizione di governo, ricercando lo sdegno della massa su problematiche dall’alta suscettibilità nazionale.
Dall’altro lato invece, l’attuale governo sembra sempre più in difficoltà nel giustificare i propri programmi di politica estera.
L’obiettivo principale della politica estera del governo Vučić è quello di portare il paese verso l’UE, senza rinunciare ad avere buoni rapporti sia con la NATO che con la Russia di Putin. Un approccio in politica estera che in passato valse a Belgrado il titolo di “ponte tra est e ovest” e che l’attuale governo dovrà dimostrare di essere in grado di saper ereditare.

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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