Quando i vichinghi difesero Costantinopoli

Erano seimila, un corpo di combattenti d’élite, costituivano il reparto più leale e pugnace di tutto l’esercito imperiale. Venivano da lontano, dai fiordi e dai ghiacci del nord Europa, veneravano divinità di fuoco, d’acciaio e di mare. La loro arma era l’ascia, e come i loro antenati non temevano la morte. Noi li chiameremmo vichinghi, normanni o norreni, i bizantini li chiamavano “variaghi” da vajr, “mercante” in lingua norrena.

Quando, nel 1204, Costantinopoli venne attaccata dai crociati, loro furono gli ultimi ad arrendersi. Miklagard, come la chiamavano, era ormai la loro città, e la “grande città” sarebbe stata difesa fino all’ultimo sangue. Sangue nordico. Così, mentre i bravi cattolici avvinazzati pagati dal papa di Roma stupravano monache e preti, torturavano i cittadini, trucidavano la popolazione inerme, tutto dando alle fiamme, questi pagani glaciali furono l’ultimo baluardo contro la barbarie della civiltà latina.

Ma cosa ci facevano a Costantinopoli questi seimila combattenti vichinghi? Per saperlo occorre risalire indietro nel tempo di quattro secoli, quando gruppi di norreni presero a saccheggiare l’entroterra che oggi diremmo russo, risalendo il corso dei fiumi con le loro agili navi. Razzia dopo razzia, presero a stabilirsi in quelle terre e all’incursione preferirono il commercio, fondando città destinate a rimanere nella storia, come Novgorod e Kiev. La razzia rimase il metodo di persuasione utilizzato per convincere le popolazioni riottose ad obbedire ai nuovi venuti. Popolazioni in larga misura slave, dedite all’agricoltura, che accettarono senza troppe resistenze la nuova leadership norrena, dando così luogo ai principati slavo-normanni di Kiev e Novgorod che sono all’origine della nazione russa.

Anche il termine “russo”, a dirla tutta, era riferito a questi uomini del nord. Gli slavi autoctoni, non sapendo come chiamare i nuovi venuti, mutuarono il termine dai vicini balto-finni: infatti il termine “rus” non appartiene alla lingua slava, è un termine che deriva dal balto-finnico e non a caso, ancora oggi, in finlandese, la Svezia è chiamata “Ruotsi”. Il termine andò poi a indicare l’intera popolazione dei principati che, nel tempo, andarono slavizzandosi. Nelle regioni orientali le genti norrene non riuscirono infatti a dare continuità alla propria cultura, come invece in Inghilterra, Francia e Sicilia, ma vennero progressivamente assimilati.

Il processo di assimilazione doveva già essere avanzato quando, nel 988 d.C., l’imperatore bizantino Basilio II I decise di dare in sposa la sorella Anna al principe variago Vladimir di Kiev, da poco convertitosi al cristianesimo. Il matrimonio divenne occasione per un’alleanza e l’imperatore, in cambio della sorella, chiese seimila uomini come guardia personale. Fu così che nacque la “guardia variaga”. Un corpo noto per la sua eccellenza nell’arte della guerra e per la sua fedeltà.

Quando nel 1204 le truppe cristiane giunsero sotto le mura di Costantinopoli, i vichinghi erano ormai da più di due secoli responsabili della difesa della città. In quella Quarta Crociata fu evidente al mondo, e ai posteri, l’ipocrisia dell’occidente latino che formalmente andava a difendere la Terrasanta ma che, in pratica, distrusse Zara e saccheggiò Costantinopoli senza mai giungere a Gerusalemme. Nacque così l’Impero Latino che durò per circa sessant’anni prima di ricadere in mano bizantina. Quell’esperienza, oltre a segnare profondamente i rapporti tra cristianità latina e greca, e in prospettiva tra mondo cattolico e ortodosso, indebolì l’impero bizantino rendendolo così incapace di difendersi efficacemente dalla successiva pressione musulmana. Non solo, quell’evento segnò la fine della Guardia Variaga che si disperse per sempre.

Questa storia curiosa, e forse poco nota alla gran parte delle persone, è uno dei molti esempi di come l’Europa sia il risultato di innumerevoli incontri. La cultura europea è la somma di questi incontri ma allo stesso tempo essa è ormai qualcosa di unitario, al punto da rendere vano lo sforzo delle storiografie nazionali nel difendere e proporre una visione della storia “esclusiva”, nella quale i “noi” sono sempre opposti ai “loro“.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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