POLONIA: Quando le celebrazioni non fanno sempre i conti con la storia

L’11 novembre è la data in cui la Polonia si veste a festa per ricordare la propria indipendenza e rinascita dopo 123 anni di assenza dalle cartine geografiche dovute alle tre spartizioni (1772, 1793, 1795) ad opera di Austria, Prussia, e Russia. Una data che alla fine della Prima Guerra Mondiale con la firma dell’armistizio da parte della Germania associa la ridefinizione di parte della mappa europea. Il quadro politico nel Vecchio Continente si frammenta non solo per l’applicazione (non universale) del principio di autodeterminazione predicato da Wilson ma anche per la sconfitta della Germania, e la dissoluzione dell’Impero Austroungarico, Ottomano e Russo. La Polonia deve la sua apparizione, quindi, a fattori bellici e diplomatici che seppe sfruttare a proprio vantaggio con la penna e con il sangue.

Il novembre del 1918 non funge da discrimine per un immediato disegno dei confini polacchi ma da riconoscimento di una causa nazionale, già sottoposta all’attenzione internazionale, per la quale i polacchi combattevano da qualche anno sui terreni di guerra e sui tavoli diplomatici. Una vera e propria questione, di difficile risoluzione, che spinse l’allora Primo Ministro britannico Lloyd George a dichiarare più tardi nelle sue memorie: «No one gave more trouble than the Poles». E di problemi giustamente si trattava dato che i polacchi serbavano il ricordo della Polonia del Commonwealth a cui aspiravano, mentre i popoli vicini, figli anche loro della stagione del ’48 Ottocentesco, se ne allontanavano rivendicando per sé quegli stessi spazi che la Polonia sentiva come propri.

Sebbene i semi per la creazione di uno stato polacco furono gettati già il 5 novembre 1916 con l’atto firmato dagli Imperatori Guglielmo II e Francesco Giuseppe e, un anno dopo, con le dichiarazioni del Principe Georgi E.Lvov (capo del governo provvisorio russo insediatosi dopo il collasso della dinastia Romanov), nessuno, per ovvie ragioni di cautela politico-strategica, si arrischiava a definire le frontiere di quella che sarebbe diventata la Seconda Repubblica Polacca, nota come Rzeczpospolita. Il Comitato Nazionale Polacco, germe del futuro stato nato sotto il consenso austriaco per guadagnarsi il sostegno polacco nello sforzo bellico, era sotto la guida di Jozef Piłsudski, figura militare e politica tra le più importanti e determinanti per le sorti della Polonia. Il Generale riuscì a coinvolgere i polacchi nel conflitto tenendoli sotto il proprio comando in modo che il Comitato potesse essere riconosciuto come ufficiale rappresentante della nazione polacca sia per l’azione sul campo – anche dopo che fu imprigionato e la guida passò a Ignacy Daszyński – sia per l’attività diplomatica condotta da Roman Dmowski, nazionalista e rivale a vita di Piłsudski (ma da lui stesso incaricato per presentare le prime rivendicazioni polacche a Versailles), attivo in Occidente per ricercare il supporto alleato, la migliore garanzia per una Polonia restaurata.

Negli ultimi giorni del conflitto Piłsudski venne rilasciato e, tornato a Varsavia, assunse il ruolo temporaneo di capo dello stato decretando le elezioni generali per la fine del gennaio 1919. Cominciati i lavori a Versailles, lo stato polacco era già nato e doveva la sua esistenza sia alla sconfitta dell’armata tedesca che al fait accompli del Generale. Ciò che rimaneva completamente da definire era la questione delle frontiere. Se il principio di autodeterminazione accorreva in aiuto – con i dovuti distinguo – ad ovest (non tratteremo qui i plebisciti in Prussia Orientale, Alta Slesia né lo spinoso capitolo su Danzica), non riusciva, invece, a orientare le decisioni ad est dove fu la Polonia stessa a combattere per il suo futuro. La questione delle frontiere tra Germania e Polonia , infatti, trovava una disposizione generale nel Trattato di Versailles, ma i confini orientali della Polonia non furono discussi alla Conferenza di Pace né il Trattato di Saint-Germain con l’Austria includeva disposizioni sulla Galizia, la cui parte orientale era contesa ora anche dalla Russia che però su quei territori non aveva mai dominato. Il fronte orientale, dunque, rimase acceso e si spense solo con la Pace di Riga del 1921 e la Conferenza degli Ambasciatori del 1923 che riconobbe il possesso polacco su Vilnius.

La Polonia, molto diversa e più orientale di quella che conosciamo oggi, non solo doveva ricucire tre segmenti della sua nazione che durante l’epoca delle spartizioni avevano imboccato tre diversi percorsi politici ed economici, ma aveva una fisionomia talmente eterogenea che un terzo della popolazione non era polacca. Ucraini, bielorussi, lituani, russi, tedeschi, cechi ed ebrei si trovarono in uno Stato che non consentì loro piena libertà d’espressione. Tragica fu la storia di quei popoli e della Rzeczpospolita che, arrogante, elevò l’identità polacca a guida ed esempio civilizzatore rispetto alle minoranze presenti nel suo territorio, aggrappandosi al ricordo del Commonwealth multi-etnico ma in una riedizione nazionalista che degenerò, dalla seconda metà degli anni ’30, in un autoritarismo sempre più intollerante e aggressivo.

Dunque, quando a Varsavia, in Piazza Piłsudskiego, si ricorda la libertà del proprio popolo in uno spirito auto-celebrativo, bisognerebbe rispolverare anche le pagine nere della propria storia riconoscendosi vessatori oltre che vessati. Risulterebbe più facile comprendere la pericolosità del messaggio nazionalista “la Polonia ai polacchi” (ma non è il caso di diffondere allarmismi o fare generalizzazioni) che mercoledì 11 sbandierava l’opposizione a qualsiasi forma d’accoglienza ai rifugiati, e negli anni ’20 e ’30 spianò la strada alle future violenze e al mancato riconoscimento dei diritti alle minoranze, nella presunzione che la cultura del gruppo di maggioranza sia quella da collegare alla cosiddetta identità dello stato-nazione.

Chi è Paola Di Marzo

Nata nel 1989 in Sicilia, ha conseguito la Laurea Magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso la Facoltà "R. Ruffilli" di Forlì. Si è appassionata alla Polonia dopo un soggiorno di studio a Varsavia ma guarda con interesse all'intera area del Visegrád. Per East Journal scrive di argomenti polacchi.

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4 commenti

  1. Per la Polonia che conosciamo oggi i polacchi possono ringraziare la Russia o meglio l’Unione Sovietica. Territori mai stati polacchi ad est dell’Oder, la Slesia, area di Ciesyn occupata a seguito del patto di Munchen, Stettin e Danzig, tutta la Prussia orientale sono oggi polacche grazie alla Krasnaja Armija

  2. I cittadini della Repubblica Ceca sono “cechi/ceche”.

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