SIRIA: Amnesty International accusa i curdi di crimini di guerra

Villaggi rasi al suolo, punizioni collettive, centinaia di famiglie cacciate dalle loro case. Senza alcuna valida ragione, solo per rappresaglia. Per il diritto internazionale umanitario queste azioni hanno un nome ben preciso: sono crimini di guerra. Ecco i ‘danni collaterali’ dell’offensive curde in Siria. L’accusa arriva da Amnesty, che raccoglie le prove in un report appena pubblicato. I responsabili sono i curdi del partito PYD e le milizie armate che ne dipendono, l’YPG e l’YPJ. Non è la prima volta che l’ong guarda con sospetto il PYD [LEGGI: Abusi di potere e processi sommari. Amnesty accusa i curdi]. Ma l’accusa di crimini di guerra è ancora più pesante per chi, come i curdi siriani, ha dichiarato l’auto-governo e si vanta di aver basato la propria costituzione nuova di zecca sul rispetto dei diritti umani.

“Hanno raso al suolo il nostro villaggio”

Giugno 2015, le milizie curde avanzano su Tall Abiyad ancora in mano all’Isis. Conquistarla ha un forte valore simbolico, significa prendersi la rivincita per l’assedio di Kobane. Ma soprattutto vuol dire riunificare due cantoni curdi, controllare una striscia di terra lunga 400 km. Il 16 giugno i curdi prendono Tall Abiyad, poi continuano verso sud. Cinque giorni dopo occupano alcune decine di villaggi nei dintorni di Suluk. Gli abitanti sono in prevalenza arabi e turcomanni. L’YPG cerca quelli che hanno sostenuto l’Isis, ma se ne sono già andati. “Dovete andarvene per la vostra sicurezza”, si sentono dire gli abitanti. Ma il fronte ormai è lontano, nessuno lì imbraccia le armi, l’Isis non ha disseminato le case di ordigni esplosivi. Insomma, non c’è nessuna ragione per andarsene. I miliziani dell’YPG ritornano, questa volta con i bulldozer.

Fra le macerie di Asayem e Husseiniya

Asaylem erano 103 edifici e una strada, ne restano in piedi 3. Raneen oggi è disabitata: l’YPG ha minacciato di ammazzare tutti se non partivano immediatamente. Ad Hammam al-Turkman le milizie curde hanno radunato tutti nella scuola, 1400 famiglie turcomanne e 10 curde. “Se non ve ne andate vi facciamo bombardare dagli Usa”. Ad al-Ghbein per essere più convincenti ammazzano qualche capo di bestiame, che per molti è l’unico sostentamento.

Fra luglio e agosto Amnesty ha intervistato testimoni e sfollati, ha visitato i villaggi distrutti e confrontato le immagini satellitari per risalire all’esatto momento in cui sono stati rasi al suolo. Come per Husseiniya, estremo nord-est della Siria, dove a giugno dell’anno scorso c’erano 225 edifici e pochi giorni dopo che i curdi l’hanno conquistata ne rimanevano in piedi 14. Gli abitanti, quasi tutti arabi e accusati di aver appoggiato l’Isis, se ne sono andati sotto minaccia. Curiosamente non nelle zone controllate dal Califfato, poche decine di km più a sud. Gran parte ha optato invece per Qamishli, la maggiore città curda dell’area.

Rappresaglia o pulizia etnica?

La Turchia non si era lasciata scappare l’occasione. A giugno, appena conquistata Tall Abiyad e con le prime indiscrezioni che filtravano, aveva accusato i curdi siriani di orchestrare una vera e propria pulizia etnica. Quello di Ankara era un chiaro tentativo di screditare i curdi per colpire il PKK, organizzazione gemella del PYD siriano. E di certo, stando alle prove raccolte da Amnesty, non si può parlare di pulizia etnica: non c’è sistematicità né un’azione su larga scala. Curiosamente, la risposta ufficiale del comandante delle YPG tralascia l’accusa di crimini di guerra per concentrarsi solo su quella (della Turchia, non di Amnesty) di pulizia etnica. Un ottimo modo per spostare l’attenzione dal problema, tanto più che i vertici politico-militari curdi ben si guardano dall’aprire un’inchiesta.

In una seconda risposta l’YPG sostiene che i fatti non costituiscono un reato perché giustificati da necessità militare e che le distruzioni dei villaggi sono imputabili all’Isis, al regime, ai combattimenti, insomma a tutti tranne che a loro. Senza smentire però le immagini satellitari mostrate da Amnesty, che certificano che i villaggi sono stati rasi al suolo quando erano sotto l’occupazione dell’YPG. Né il fatto che le distruzioni non sono compatibili con bombardamenti o fuoco d’artiglieria, come lasciano intendere l’YPG.

I crimini commessi finora, quindi, sembrano avere un chiaro movente nella rappresaglia. I villaggi colpiti sono rimasti in mano all’Isis, e prima ancora ad altre milizie jihadiste e salafite, per anni interi. Da lì partivano le autobomba che facevano strage ai checkpoint curdi. Gli abitanti di quei villaggi però non hanno mai dimostrato di appoggiare l’una o l’altra fazione o di aver combattuto. Semplicemente, cercavano di sopravvivere. Troppo poco per accusarli di connivenza col nemico. Purtroppo, abbastanza per sfogare su di loro la propria rabbia.

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Nella foto di Amnesty: alcune delle abitazioni distrutte nel villaggio di Husseiniya presso Tall Hamis, governatorato di Hasakah.

Chi è Lorenzo Marinone

Giornalista, è stato analista Medio Oriente e Nord Africa al Centro Studi Internazionali. Master in Peacekeeping and Security Studies a RomaTre. Per East Journal scrive di movimenti politici di estrema destra.

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2 commenti

  1. Renato Corsetti

    Ancora una prova che Amnesty International e’ un gruppo organico agli interessi degli USA. Il comportamento della cosioddetta comunita’ internazionale nei confronti dei curdi e’ ripugnante. Renato Corsetti

    • Piuttosto è vero il contrario: i curdi siriani sono l’unico gruppo combattente appoggiato dagli Stati Uniti in Siria. Gli USA li stanno armando per lanciare un’offensiva su Raqqa, contro l’ISIS; hanno dichiarato – contrariamente ad Erdogan – che i curdi siriani non possono essere considerati un gruppo terroristico. Ne abbiamo scritto qua: https://www.eastjournal.net/archives/66474 E la comunità internazionale è sempre quella che più di un anno fa ha mandato armi, mezzi e addestratori ai curdi iracheni. Ne scrivevamo qua: https://www.eastjournal.net/archives/47695 Come che uno la pensi, senza quel sostegno ora l’ISIS sarebbe a Erbil.

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