RUSSIA: L’intervento in Siria e il piano di Mosca per il Mediterraneo

Il sogno del Mediterraneo

Fin dai tempi di Pietro I e Caterina la Grande, la Russia sogna l’accesso al Mediterraneo. Un sogno che rispondeva a ben precisi bisogni di ordine economico e geopolitico: le acque del Baltico e del Mar Bianco nei mesi invernali congelano, impedendo così l’attracco alle navi e lo sviluppo dei commerci. La rotta mediterranea diventava un necessario sbocco per una Russia che andava affermandosi come potenza. E proprio la crescita di importanza nel contesto internazionale la obbligava ad incrementare la propria capacità di proiezione militare verso l’area balcanica e mediterranea. Questi obiettivi non sono mai cambiati, le guerre con l’Impero ottomano, il controllo dell’Ucraina e delle coste del Mar Nero, sono sempre state una priorità per la Russia moderna e per la sua variante sovietica.

Il limite dei Dardanelli e la base di Tartus

Le ragioni che spingono oggi Mosca a guardare al Mediterraneo non sono diverse. Tuttavia l’influenza russa non ha mai superato i Dardanelli, il Mar Nero è un bacino chiuso e i Dardanelli si sono sempre rivelati un confine invalicabile. L’Unione Sovietica riuscì però ad ovviare al problema aggirando l’ostacolo. Nel 1971 – in piena Guerra Fredda – la Siria concesse ai russi l’utilizzo del porto di Tartus. Ufficialmente non era una base navale vera e propria ma soltanto un attracco per la Quinta flotta sovietica, tuttavia il carattere militare fu evidente fin dall’inizio. Con il collasso dell’URSS la flotta venne smantellata e la base dismessa. Ma Tartus è rimasta nelle disponibilità russe tanto che nel 2008 una nuova flotta russa, con quattro sottomarini nucleari al seguito, gettò l’ancora nel porto siriano.

In campo contro l’ISIS?

Il resto è storia recente. Allo scoppio della guerra in Siria un incrociatore russo partì da Sebastopoli per dimostrare l’appoggio russo al regime di Damasco ma il complicarsi del conflitto rese necessaria l’evacuazione della base. E’ però notizia di questi giorni che la Russia ha deciso di scendere in campo in supporto di al-Assad. Formalmente si tratta di un intervento finalizzato a combattere l’ISIS ma i russi non spareranno un colpo contro i jihadisti.

L’intervento russo non arriva in un momento casuale ma dopo l’accordo tra Teheran e Washington, e il conseguente sdoganamento del regime iraniano. L’Iran è uno storico alleato di al-Assad e per questo sta combattendo, con sempre maggiore tenacia, contro i fondamentalisti di al-Nusra e i miliziani del sedicente “stato islamico”. Se l’Iran, amico di Assad, è alleato americano, allora l’intervento russo – per tramite iraniano – in supporto dello stesso Assad non è tale da mettersi in competizione con Washington.

Un microstato alawita?

Gli obiettivi russi, iraniani, turchi e americani nell’area sono però diversi. Tutti intendono influenzare le decisioni sul futuro del paese, tutti vogliono la loro parte della torta. E se il paese dovesse essere smembrato, a Mosca interessa che la fascia costiera, da Latakia a Tartus, resti in mano alla dinastia alawita. D’altronde proprio quella è la regione in cui gli alawiti sono maggioranza e che, durante il mandato francese degli anni Venti, vide la nascita di un microstato alawita.2000px-French_Mandate_for_Syria_and_the_Lebanon_map_en.svg

Insomma, Putin vuole che quell’area resti saldamente in mano di al-Assad o, nel peggiore dei casi, di un suo manutengolo. Per questo i russi sono in Siria, per difendere quella regione, e non andranno oltre. Se dovranno sparare per difenderla, lo faranno che si tratti dell’ISIS o di Jaish al-Fatah, l’Esercito della Conquista, coalizione di gruppi islamisti che attualmente combatte nella zona che, al momento, è però ben controllata dalle truppe lealiste.  Per questo i russi si sono limitati a mandare mezzi e non uomini, anche se non si può escludere un maggiore impegno in futuro.

Tamar e Leviathan

Ma perché ai russi interessa il controllo della regione alawita? Non solo per le suddette logiche di potenza, ma anche per la presenza – al largo delle coste – di un enorme e ricchissimo giacimento di idrocarburi. E’ il cosiddetto Bacino del Levante che si estende nelle acque del Mediterraneo orientale tra Cipro, Israele, Siria ed Egitto. Diviso nei campi di Tamar e Leviathan, si calcola possa produrre 600 milioni di barili di petrolio, senza contare i giacimenti di gas. Tutti nella regione ambiscono a metterci le mani: i turchi, che sfruttano il controllo di Cipro Nord, gli israeliani, i greci, e ovviamente i russi. 800px-Levant_Basin

La base navale russa di Tartus è quindi divenuta doppiamente rilevante per Mosca, sia come base nel Mediterraneo, finalmente oltre il limite dei Dardanelli; sia come testa di ponte per i giacimenti di idrocarburi. Ma perché ai russi vengano rilasciate le concessioni, occorre che i proprietari di quelle acque restino alleati. E i proprietari sono i siriani o, eventualmente, uno stato alawita che controlli la costa. La Crimea e la Siria rappresentano quindi i due vertici della strategia militare ed economica russa nel Mediterraneo, una strategia che al momento si sta rivelando vincente.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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Un commento

  1. Confesso che nel complesso l’analisi non mi convince. Sicuramente Putin non è in Siria per combattere l’ISIS al massimo se ci manderà sul serio delle truppe sul terreno, queste serviranno per sostenere il traballate regime di Al-Assad, ed ad evitare che venga sostituito da “amici dei nemici”.
    Qualche caccia, qualche azione “visibile” giusto per essere prossimamente sotto i riflettori a New York e magari riuscire ad accreditarsi come il grande salvatore e il castigamatti di fanatici tagliagole nel Vicino Oriente (e magari in patria…), ma crede veramente che gli oligarchi-con-i-soldi-in-Svizzera rischierebbero un altro possibile Afghanistan?
    E siamo veramente sicure che oggi come oggi Putin e i suoi generali abbia i mezzi per sostenere un intervento “imperiale” in una regione dove vige il “tutti contro tutti”? E la guerra ibrida in Ucraina?
    Infine il peso strategico della “base navale” di Tartus mi sembra sopravvalutato: la flotta russa del Mar Nero è comunque imbottigliata e mai potrà avere una qualche proiezione oceanica. Le uniche vere minacce navali russe sono i sottomarini nucleari equipaggiati con missili balistici in immersione lunghissime e in giro per gli oceani, la cosiddetta “Flotta del Nord” (vi ricordate “l’incidente” del K-141 Kursk dell’agosto 2000?).
    Circa poi l’interesse di un nazione ricca di giacimenti petroliferi, ma povera di capacità economiche e tecniche per sfruttarli adeguatamente, ad un altro giacimento in una zona fuori e lontana dai suoi confini, mi sembra piuttosto platonico.
    Insomma al di la dei sogni e delle aspirazioni di gloria (qualcuno li definirebbe paranoie politiche) di Putin, vedrei dei tentativi di salvare la faccia e salvarsi dal pantano “novorrosio”, piuttosto che lungimiranti piani imperiali.
    Segnalo un altro punto di vista:
    http://www.forbes.com/sites/paulroderickgregory/2015/09/18/russia-and-the-separatists-arent-on-the-same-page/

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