Non sono viaggiatori ma migranti, replica a “Internazionale”

Da settimane assistiamo all’epica marcia dei migranti lungo i Balcani. I giornali di mezza Europa si sono scatenati in commenti, ingiurie, buonismi e proposte piuttosto originali. Così capita di imbattersi nell’opinione di Stefano Liberti ed Emilio Ernesto Manfredi su Internazionale. Siccome le parole sono importanti, ci è sembrata necessaria una replica.

I due autori propongono di abolire il termine “migrante” perché disumanizzante e offensivo. Al suo posto propongono di usare la parola “viaggiatori“. Gli autori infatti scrivono che “distinguere coloro che emigrano in cerca di una vita migliore da quanti fuggono dalla guerra è pericoloso perché rafforza un diktat ormai imposto all’opinione pubblica: la divisione tra buoni (i profughi che vanno accolti) e cattivi (i migranti economici che cercano surrettiziamente di entrare nel nostro mondo ricco ma in crisi, per sottrarci risorse e renderci poveri, e che pertanto devono essere bloccati)”. E ancora: “La distinzione semantica sembra funzionale a precise politiche” cioè a quella “visione europea” per la quale “dovremmo rinchiudere tutti all’arrivo per valutare se hanno diritto o no all’asilo. Quando la risposta è negativa, vige una sola regola: rispedirli a casa. Accetto il rifugiato e respingo il migrante”.

La distinzione non è solo semantica. Tra i migranti ci sono diverse categorie. C’è quello che esce dal suo paese alla ricerca di una condizione di vita migliore, il cosiddetto “migrante economico”, ma non è minacciato da alcun pericolo. C’è poi chi fugge da un pericolo di vita immediato, come un guerra, o che scappa da un regime autoritario che nega i più elementari diritti umani. Quest’ultimo è un rifugiato, parola che non sembra avere connotati disumanizzanti ma che, piuttosto, trasferisce la disumanità alla condizione che ha costretto il migrante a partire. Perché il rifugiato è costretto a migrare, il viaggiatore no. Verso i rifugiati abbiamo degli obblighi di soccorso. Le nostre leggi rispondono così a un altissimo valore etico: aiutare chi è in pericolo. E’ un dovere di solidarietà che i nostri paesi assolvono – non sempre al meglio, ma questo è un altro discorso – e chi ritiene ci si debba sottrarre da questo dovere è – lui sì – una persona disumana, priva di dignità. I rifugiati possono chiedere asilo politico. Si tratta di una misura transitoria che riguarda un numero assai ridotto di migranti. Lo status di rifugiato non va confuso con quello di profugo, termine generico che nel diritto internazionale non è sancito ma è che sovente usato in modo onnicomprensivo per indicare coloro che fuggono da calamità o conflitti.

Gli altri, coloro che emigrano in cerca di una vita migliore, non sono rifugiati. Nei confronti di questi ultimi abbiamo dei doveri di soccorso quando si trovano in situazioni di difficoltà o pericolo, quando il barcone affonda, quando approdano sfiniti e assetati, quando si ammalano lungo il cammino. Ma non abbiamo il dovere di accoglierli poiché, se esiste un diritto all’emigrazione, non esiste un diritto all’immigrazione.

La differenza esiste ed è importante perché ci serve a distinguere chi è in pericolo e ci consente di aiutarlo nel modo più proprio. Non è una questione di buoni e cattivi. Se nel paese di provenienza non c’è un pericolo, non c’è una guerra, non c’è una persecuzione, migrare diventa una libera scelta. Una scelta degnissima che non possiamo permetterci di svalutare dandole un altro nome. I due autori propongono invece di chiamarli “viaggiatori, dato che viaggiano come facciano noi quando decidiamo di visitare un paese straniero o di trasferircisi”. No, noi non facciamo così. Quando viaggiamo, preparata la valigia, andiamo a fare una bella vacanza verso posti noti o sconosciuti, ma sempre al sicuro e con tutti i comfort del caso. E quando andiamo a vivere in un altro paese, noi pure emigriamo.

Anche gli italiani emigrati in passato verso le americhe o l’Europa centrale erano migranti economici. Vi sognereste mai di dire a un italiano del Belgio che, spezzata la schiena in miniera, riempiti i polmoni di polvere, sofferta la solitudine e la discriminazione, lui era un viaggiatore? No, lui è un emigrante. Come emigranti sono i giovani italiani che oggi vivono all’estero, conoscete tra loro qualcuno che si definisce “viaggiatore”? Al limite, per essere un po’ cool, si definiscono expat, espatriati, non viaggiatori. Prima della dignità delle parole viene la dignità dei concetti, ed essere migranti è condizione degnissima dell’uomo perché, rispetto al viaggiatore, egli soffre e spera, lotta e paga tutto sulla propria pelle.

Il viaggio è un fenomeno che ha senz’altro qualcosa di metafisico, capace di coniugare la nostra interiorità con lo spazio circostante alla ricerca di qualcosa di nuovo dentro e fuori di noi. E’ una cosa bellissima, specie quando si ha una bella casa cui tornare. Ma al netto della poesia, le persone che attraversano il deserto a piedi, che scampano ai trafficanti di uomini, che sopravvivono nelle celle frigorifere dei camion, che sfuggono alle onde del mare, una casa cui tornare non l’hanno. Mettiamo i piedi per terra: questi sono migranti, non gente in gita. Non viaggiano, migrano.

Quando decidono di lasciare il proprio paese, per fuggire da una guerra o per cercare una vita migliore lontano dalla povertà, i migranti mettono a repentaglio la propria vita e molti non ce la fanno. Il traffico di persone è un fiorente business delle organizzazioni criminali. La gravità della situazione impone delle soluzioni politiche nuove. Non è chiamandoli “viaggiatori” che risolveremo il problema. Ed è bene ricordare che un assunto della linguistica è che “il linguaggio è uno specchio della società”. Se cambia la società, cambia il linguaggio. Non viceversa. Emendare il nostro lessico dai termini discriminatori è pratica necessaria per evitare di veicolare inconsapevolmente concetti discriminatori, ma parola “migrante” è un termine neutro affermatosi, nel dibattito politico come nei media, in luogo della parola “immigrato” cui si era associata un’idea negativa, promossa da partiti xenofobi e razzisti.

Il termine “viaggiatore” è senz’altro più accattivante, ma anche omologante e così elegantemente salottiero, da poter forse far dimenticare guerra e naufragio: non ci saranno più barconi rovesciati in mare, non ci saranno più scafisti, non ci saranno traffici di persone, solo una grande umanità in viaggio quasi fosse un divertimento. Forse gli xenofobi saranno disorientati, ma ai migranti non cambierà granché e sotto il maquillage linguistico resterà immutata, e ancor più occultata, la loro reale situazione. 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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3 commenti

  1. Buongiorno, mi permetto una precisazione:

    senza voler inficiare il ragionamento sul fatto che definire i migranti come “viaggiatori” non è meno funzionale ad un certo tipo di visione del fenomeno dell’immigrazione che l’Europa sta vivendo di quanto non lo siano le differenziazioni tra buoni e cattivi migranti criticate dagli autori di “Internazionale” – semmai anzi con l’intenzione di rafforzarlo – sottolineo che non è nemmeno corretto dire che “i rifugiati possono chiedere asilo politico” in quanto è proprio per il fatto di avere richiesto asilo (non necessariamente per motivazioni politiche, ma anche per discriminazione di genere, etnica, ecc) e per il fatto che le motivazioni a giustificazione di tale richiesta siano state ritenute fondate che i richiedenti asilo conseguono lo status di rifugiato.
    Anche in questo caso mi pare opportuno fare attenzione alle differenze semantiche così come a quelle di contenuto, altrimenti si corre il rischio di conlcudere che tutti coloro che emigrano per motivazioni che non siano la povertà o la volontà di migliorare la propria condizione siano ipso facto rifugiati, cosa che non è. Lo status di rifugiato si consegue a seguito del vaglio delle richieste di asilo da parte della autorità competenti – da noi, le Commissioni territoriali per l’Asilo; la condizione di richiedente asilo (per quanto tutelata) si auspicherebbe di breve durata, cosa che invece purtroppo per i più disparati motivi non avviene (almeno in Italia).
    E non è nemmeno corretto dire che tutti i richiedenti asilo diventano poi rifugiati, in quanto tali titolari di protezione internazionale. Oltre al diniego in caso di mancato riconoscimento della sussistenza delle motivazioni per l’attribuzione dello status di rifugiato, esiste anche la possibilità (almeno in Italia) che il richiedente possa essere riconosciuto come titolare di protezione umanitaria, che esula dalla condizione di diretto pericolo individuale per il richiedente ma si configura in una situazione di riconosciuto rischio generico a causa di gravi situazioni di crisi (guerre e catastrofi umanitarie).

    Pertanto, non tutti i migranti che non siano “migranti economici” o “expat” sono di per sé rifugiati, altra equazione automatica che rischia di ingenerare confusioni ed alimentare falsi miti facilmente strumentalizzabili.
    Cordiali saluti.

    • Grazie per la precisazione. Avevo compreso che lo status di rifugiato è in capo alla persona e che gli stati o le organizzazioni internazionali lo “riconoscono” essendo questo è già in nuce nell’individuo che, per ragioni politiche, è costretto ad abbandonare lo Stato di cui è cittadino e dove risiede, per cercare rifugio in uno Stato straniero. Il diritto d’asilo – secondo quanto avevo inteso – era quindi una conseguenza del “riconoscimento” dello status di rifugiato. E che i due status, quello di rifugiato e quello di richiedente asilo, andassero in qualche misura tenuti distinti. Non si intendeva comunque sostenere che coloro che non sono migranti economici siano giocoforza rifugiati, poiché, da quel che so, non basta fuggire da una guerra per esserlo ma occorre essere vittima di persecuzione o discriminazione per ragioni ulteriori. Quel che mi premeva era sottolineare l’importanza delle differenze che non sono, dal mio punto di vista, un modo per distinguere buoni e cattivi ma servono per meglio individuare gli strumenti di intervento. Inoltre, quando migrare è una scelta (quindi non nel caso dei rifugiati, che vi sono costretti), questa va rispettata in quanto libertà dell’individuo, chiamandola con il proprio nome: emigrazione, non viaggio.

      Matteo

  2. Per me invece è un’ottima proposta: equipariamo l’esodo dei Siriani all’Italienreise di Goethe. Sicuramente allevierà le loro sofferenze.
    Del resto, quando abbiamo iniziato a chiamare gli zingari “rom”, sono divenuti nettamente più agiati.
    Già “migranti” era un inutile politicorrettismo, figuriamoci viaggiatori. La prossima turisti?
    Ogni dibattito nominalistico è per se stesso inutile, reo chi lo inizia.

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