Quando l’Unione rischiò di rompersi. La lunga notte dell’accordo sulla Grecia

“E’ meglio combattere attorno a un tavolo che sul campo di battaglia”, disse Jean Monnet, economista politico francese destinato a diventare il primo leader di un organismo sovranazionale europeo, la CECA, e per questo considerato uno dei “padri d’Europa” –  dell’Europa unita, s’intende.  Una frase che bene si attaglia ai negoziati a oltranza andati in scena tra Grecia ed Unione Europea e conclusi il 12 luglio scorso dopo ben 14 ore di colloqui ininterrotti. Attorno a quel tavolo si è combattuto davvero, “con violenza”, come confessato da un funzionario presente alle trattative.

Una notte intera di prese di posizione, alleanze e tradimenti, colpi bassi, sortite all’arma bianca, attacchi disperati. In quella lunga notte si sono consumati momenti drammatici, come quando il ministro delle Finanze finlandese ha accusato uno stato intero, la Grecia, di “non aver saputo riformare il paese in oltre mezzo secolo”, e lo ha urlato in faccia all’omologo greco, Euclid Tsakalotos, che è in carica da una settimana, non da cinquant’anni. Un sintomo della malattia europea, il pregiudizio, la sfiducia reciproca, il sospetto, che tante disgrazie ha causato nei secoli e che oggi diventa misura delle transazioni finanziarie: la “fiducia” dei mercati nasconde forse un mostro abissale, che abita le profondità del continente, quello della diffidenza che si fa inimicizia, odio, in nome di interessi particolari, del potere dell’uno sugli altri.

Quella notte la fine dell’Unione Europea per come la conosciamo è sembrata inevitabile. Dopo un’altra lezione di morale da parte slovena, il fronte teutonico si mostra preponderante e pretende che venga istituito un fondo in cui convogliare i proventi delle privatizzazioni dei beni pubblici greci da cui prendere i soldi per rimborsare i debiti verso i creditori. E tale fondo, dicono i tedeschi, dovrà avere sede in Lussemburgo, fedele forziere germanico, espressione dell’attuale leadership europea – quello Junker dal cognome prussiano e dal nome francese che più che un capo sembra un vassallo, piccola nobiltà di periferia.

Tsipras rifiuta la proposta tedesca, fatta per essere rifiutata. E ci si alza dal tavolo, con l’ipotesi dell’uscita della Grecia dall’euro come unica via percorribile. Ma i francesi, come nella canzone, s’incazzano. Il ministro delle finanze Sapin accusa i tedeschi di “malafede” e l’omologo tedesco, Wolfgang Scheuble, risponde stizzito al presidente della BCE, Mario Draghi, colpevole di averlo trattato con sufficienza: “non sono un idiota”. Scheuble, infatti, non lo è per nulla quando insiste che almeno si inserisca nel documento finale la proposta di sospendere Atene dall’eurozona per cinque anni. Niente da fare.

Alla fine sono, ironia della sorte, proprio i polacchi a costringere i tedeschi a retrocedere. Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, già primo ministro, chiude la porta della stanza: “Da qui non si esce senza un accordo”. Che abbia salvato l’Europa o solo rallentato il declino, ce lo dirà il tempo. I leader europei si rimettono al tavolo, nervosi, alla fine un accordo si trova. Il peggiore possibile. Anche gli altri fanno pressione su Atene: che si mangi la minestra perché dalla finestra il salto potrebbe essere troppo alto. E Tsipras – circondato – cede ma guadagna tempo e denaro. Servirà? La Grecia porta a casa la promessa di una restrutturazione del debito (fra tre anni però), il rifinanziamento delle banche (che altrimenti sarebbero state insolventi), ma il prezzo di questo “secondo memorandum” è altissimo e le prospettive per la crescita, senza la possibilità di fare deficit, restano cupe.

La lunga notte europea segna due dati politici rilevanti. Il primo, facilmente reversibile, della rottura dell’asse franco-tedesco, come confermato dalle stesse parole del presidente francese Francois Hollande. Il secondo, forse irreversibile, della “crocifissione” di Tsipras in sala mensa. Crocifissione, proprio questa la parola usata da un funzionario francese: “Lo hanno crocifisso”. Così inchiodato, il primo ministro ellenico è tornato ad Atene con un accordo che pone pesanti condizioni e che il parlamento ha ratificato il 15 luglio scorso dopo una drammatica seduta. La tragedia greca è ormai una tragedia europea, al banco dei negoziati si è visto come attorno al tavolo non ci fossero dei partners in cerca di una soluzione comune ma una serie di nazioni che egoisticamente tutelano ognuno il proprio interesse. Con queste premesse, un’altra lunga notte di coltelli sarà presto all’ordine del giorno.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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