STORIA: L’insurrezione di luglio. Quando i montenegrini si ribellarono al fascismo

di Nikola Pavlović 

Anche se il numero tredici nella maggior parte del mondo è spesso legato al concetto di sfortuna, per il Montenegro, piccolo ma orgoglioso paese stretto tra le montagne del Durmitor e del Lovćen e sulla costa adriatica, questo numero rappresenta un significato eccezionale, e in particolar modo il giorno tredici del mese di luglio.

Questa data, in Montenegro, è una festa nazionale sentita con più felicità che qualunque altra festività, religiosa o tradizionale. Il 13 luglio del 1878 il Montenegro ottenne il riconoscimento internazionale dal Congresso di Berlino come principato sotto Nikola Petrović, conosciuto come “il suocero d’Europa”, in quanto furono pochi in Europa i principi che non avessero una sua figlia in moglie.

Inoltre, il significato di tale data venne arricchito dal fatto che l’insurrezione armata del popolo montenegrino contro l’occupazione dell’Italia fascista cominciò proprio il 13 luglio del 1941, e si tratta della prima e più grande insurrezione armata nell’Europa dell’epoca, ormai oppressa sotto lo stivale delle forze dell’asse.

Pare che pure Jean-Paul Sartre, una delle più grandi menti del ventesimo secolo, considerasse questa data come uno dei momenti più importanti della storia di quel periodo.

L’insurrezione

L’insurrezione del popolo montenegrino venne pianificata e coordinata dai leader del Partito Comunista Jugoslavo di Montenegro, Sangiaccato e Bocca di Cattaro. Si stima che circa due terzi della popolazione montenegrina in età militare partecipò all’insurrezione contro un avversario, i fascisti italiani, considerati dieci volte superiori. Il primo giorno vennero catturati 7 mila soldati italiani, e rappresentò la prima vittoria nella Seconda Guerra Mondiale contro le forze nazi-fasciste.

A quell’epoca, le forze dell’asse avevano già invaso il Regno di Jugoslavia spartendosene il territorio, e la maggior parte del Montenegro si trovava sotto l’occupazione italiana.

Lo storico serbo Kosta Nikolić commentava così: “la politica italiana verso il Montenegro venne caratterizzata sin dall’inizio dal dilemma se annettere questo territorio, come accadde con la Dalmazia e parti della Slovenia, oppure se, con l’appoggio delle forze locali, “vecchi patrioti”, rinnovare la sua fittizia indipendenza nella cornice dell’Impero”.

La Bocca di Cattaro venne annessa; Ulcinj (Ulcigno), la Metochia e i territori attorno Podgorica e Andrijevica in cui la popolazione albanese era maggioritaria vennero inglobati nello stato-marionetta della Grande Albania.

Il resto del Montenegro venne trasformato in uno stato fantoccio, al cui vertice si trovavano alcuni oppositori dell’unificazione con la Serbia del 1918, Sekula Drljević e Petar Plamenac, con l’obiettivo di creare attriti tra il Montenegro e la Serbia occupata. Venne pianificato di far salire al trono il principe Mihailo, nipote del principe e re Nikola Petrović, anche se questi, dopo un incontro con Galeazzo Ciano dichiarò di non volersi compromettere in quanto fosse certo che Germania e Italia avrebbero perso la guerra. Nel frattempo, in Montenegro continuavano ad arrivare colonne di profughi in fuga dal terrore nei territori albanesi. La rivolta armata era solo questione di giorni.

In una situazione tanto instabile, il partito comunista restava vigile, aspettando il momento più propizio. I preparativi dell’insurrezione erano iniziati nel maggio del 1941. Il comitato regionale del Partito Comunista di Jugoslavia per il Montenegro organizzò la formazione di truppe d’assalto per la lotta armata. Questi gruppi avevano composizione diversa (da 10 a 30 persone) e in essi partecipavano innanzitutto membri del partito e dell’alleanza dei giovani comunisti (SKOJ). In tutto si trattava di 290 gruppi, per un totale di 6mila uomini. Uno dei segnali fu l’attacco tedesco all’Unione Sovietica con l’inizio dell’operazione Barbarossa il 22 giugno. Il 4 luglio, Milovan Đilas ottenne a Belgrado il compito di mobilitare comunisti e simpatizzanti nelle azioni di guerriglia.

Nel frattempo, i collaborazionisti montenegrini tennero un’assemblea il 12 luglio a Cetinje, rigettando la costituzione jugoslava e l’unione con la Serbia, e nominando primo ministro Sekula Drljević, avvocato di Zemun.

Il giorno dopo scoppiò la rivolta. I primissimi villaggi liberati furono Virpazar e Čevo. I comandanti erano Bajo Stanišić e Pavle Đurišić, ex ufficiali del regno jugoslavo che tuttavia diventeranno successivamente comandanti del movimento cetnico. Ad essi si aggiunsero i comunisti Milovan Đilas e Budo Tomović.

Liberazione

Nei giorni successivi vennero liberate Mojkovac, Bioče, Spuž e Lijeva Rijeka, mentre nei pressi del villaggio di Košćel gli insorti attaccarono il battaglione motorizzato della divisione “Messina” uccidendo 70 soldati italiani, ferendone 110 e facendo 290 prigionieri. Andrijevica venne liberata il 16 luglio; Bijelo Polje, Berane, Danilovgrad, Žabljak e Kolašin, il 20 luglio; Šavnik, il 22 e Grahovo il 24 luglio.

Una delle maggiori battaglie dell’insurrezione di luglio avvenne sulla strada tra Cetinje e Budva, nei pressi di Brajić, dove gli insorti tesero un’imboscata alla colonna motorizzata italiana, che contava 20 camion, 6 carri armati, 7 motociclette e un automobile per ufficiali. Dopo diverse ore di battaglia gli italiani ebbero la peggio, per un totale di 220 vittime tra morti e feriti, mentre gli insorti contarono appena 2 morti e 7 feriti.

Il 18 luglio il comitato regionale del Partito Comunista nominò l’alto comando delle truppe di liberazione nazionale del Montenegro, Sangiaccato e Bocca di Cattaro, tra cui Arso Jovanović (uno dei più stretti compagni di Tito) e Milovan Djilas. A Bijelo Polje, il 21 luglio, si tenne invece la prima assemblea pubblica a cui parteciparono non solo gli insorti ma anche molta gente comune, in tutto circa 5 mila persone. I fini e le modalità del movimento di liberazione nazionale vennero spiegati dal segretario regionale del Partito Comunista del Sangiaccato, Rifat Burdžević “Tršo”.

L’insurrezione di luglio vide la partecipazione di circa 32 mila persone, che per l’epoca corrispondeva a circa due terzi della popolazione in età militare ad esclusione delle città di Cetinje, Nikšić, Podgorica e Pljevlje in cui gli italiani detenevano un forte potere. Gli insorti, tra il 13 e il 22 luglio, liberarono ben sei distretti: Andrijevica, Berane, Bijelo Polje, Danilovgrad, Kolašin e Šavnik. E cinque villaggi: Virpazar, Grahovo, Žabljak, Petrovac e Rijeka Crnojevića. Ad esclusione dei centri urbani di Cetinje, Nikšić, Podgorica e Pljevlje, ma comunque includendo i loro distretti, le zone liberate del Montenegro godettero tra i 18 e i 25 giorni di libertà.

Tuttavia, dal 15 luglio il governo di Roma cominciò a mandare rinforzi alla divisione fanteria “Messina”, l’unica sul territorio. Ad essa si aggiunsero ben 5 divisioni (Pusteria, Taro, Venezia, Cacciatori delle Alpi e Puglie), diverse unità indipendenti e un gruppo di combattenti provenienti dal vicino regime collaborazionista albanese, sotto il nome di “Skenderbeg”. In tutto, circa 3 mila soldati. L’obiettivo era quello di soffocare la rivolta.
Su ordine di Benito Mussolini, tutto il potere civile passò nelle mani del generale Pirzio Biroli, comandante del nono corpo d’armata italiano, il cui rapporto a Roma circa l’insurrezione montenegrina rimane una delle migliori testimonianze di questa pagina di storia: “calmare i montenegrini oggi, è come provare ad arare il mare”. 

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