La nascita del serbo-croato. Una lingua morta che sopravvive

Il 28 marzo scorso è ricorso un anniversario particolare per i popoli dell’area jugoslava, ma nessuno sembra essersene curato e la ricorrenza è stata ignorata. Erano infatti i 165 anni dall'”Accordo Letterario” di Vienna, con il quale il 28 marzo del 1850 intellettuali serbi e croati sancivano l’unificazione letteraria e linguistica dei propri dialetti. Nasceva così la lingua serbo-croata.

Il Književni dogovor (accordo letterario) venne firmato da 8 intellettuali – serbi, croati e sloveni – ed è da intendersi come uno dei principali risultati della collaborazione culturale portata avanti principalmente da Vuk Stefanović Karadžić e Ljudevit Gaj. Lo scopo dei due letterati – il primo proveniente dalla Serbia occidentale e il secondo dal confine croato-sloveno – era quello di portare a compimento un’unificazione letteraria, che riunisse tutta quella letteratura che all’epoca venne identificate come “illirica“, per divenire poco più tardi “jugoslava“.

L’accordo, diviso in 5 punti, venne pubblicato sul giornale croato Narodne Novine di cui lo stesso Ljudevit Gaj era fondatore ed è per questo ritenuto uno dei maggiori esponenti del movimento illirico. Dal canto suo invece, Vuk Stefanović Karadžić è considerato il riformatore della lingua serba secondo la formula “scrivi come parli”, per la quale ad ogni suono corrisponde una lettera dell’alfabeto cirillico. Inoltre, Karadžić – che nel 1818 aveva già pubblicato, sempre a Vienna, il primo dizionario di lingua serba – contribuì alla causa illirica suddividendo i vari dialetti della regione e individuando nella variante “erzegovese orientale” (in giallo nella mappa) un dialetto comune alla Serbia occidentale, al Montenegro, all’Erzegovina orientale e a diverse regioni della Bosnia e della Croazia.
La predilezione per questo dialetto (istočnohercegovački) sta nell’ utilizzo della forma “ijekavica“, che è appunto la più comune alla maggior parte delle popolazioni jugoslave rispetto alle varianti “ekavica” (territorio della Serbia odierna) e “ikavica” (diffuso nella costa dalmata, in Bosnia centrale e in alcune regioni della Slavonia). A titolo d’esempio, si veda la parola “gdje” (dove), che muta a seconda delle regione in “gde” (ekavica) o “gdi” (ikavica)

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Nell’accordo di Vienna vennero dunque specificate le ragioni di questa scelta a cui fondamento vennero citate le canzoni popolari cantate in ijekavica, su cui lo stesso Karadžić basò i suoi studi linguistici, così come la letteratura proveniente da Dubrovnik, storicamente uno dei principali centri culturali della regione. Inoltre, nell’accordo viene altresì specificato che le altre due varianti vengono ugualmente accettate, a condizione che non si crei confusione e non vengano mescolate tra loro e per tale scopo lo stesso Karadžić venne incaricato di redigere le regole grammaticali.

Una delle ragioni che spinse all’Accordo, come specificato nel primo punto, fu la determinazione di una lingua e una letteratura comune per “un unico popolo”, scelta tra quelle esistenti e senza la necessità di crearne una ad hoc, allo stesso modo di tedeschi e italiani. Va sottolineato, infatti, che si era in piena “primavera dei popoli” e che l’occupazione straniera, che nei Balcani è divisa tra Impero Austro-ungarico e Ottomano, viene combattuta innanzitutto sul piano culturale e linguistico. In tale direzione vanno intese le autonomie culturali conseguite dalla Serbia, in seguito alla seconda insurrezione anti-ottomana del 1815, e dalla Croazia, in occasione del Nagodba (accordo) del 1868 con la corona asburgica. Il movimento illirico sarà dunque uno dei grandi precursori del processo di unificazione degli slavi del sud, per il quale la Serbia (indipendente dal 1878) giocherà il ruolo di “Piemonte dei Balcani”, convogliando le aspirazioni nazionali degli altri popoli.

Oltre cento anni dopo la firma dell’Accordo di Vienna, in un contesto geopolitico del tutto mutato, nel dicembre del 1954 si arriverà alla firma di un altro accordo: l’Accordo di Novi Sad. I dieci punti dell’accordo, promosso da Matica Srpska e Matica Hrvatska, consolideranno l’unicità della lingua di serbi, croati e montenegrini; l’uguaglianza di alfabeto latino e cirillico, così come l’uguaglianza tra la variante “ijekavica” e “ekavica”. Tra i firmatari rientrano alcuni dei migliori tra intellettuali, scrittori e professori jugoslavi, tra cui Ivo Andrić, Miroslav Krleža e Branko Ćopić.

L’Accordo di Novi Sad rappresentò forse l’apice delle comuni aspirazioni culturali jugoslave, a compimento di quel movimento illirico che tanto aveva contribuito all’unificazione degli slavi del sud. Tuttavia nel 1967 vedrà la luce un documento che cercherà di minare questa comune base culturale tra serbi e croati: la Dichiarazione sul nome e posizione della lingua letteraria croata. In essa veniva contestata la percepita supremazia della variante serba su quella croata, e nella Dichiarazione troveranno riferimento molti intellettuali e nazionalisti che appena quattro anni più tardi parteciperanno a quello che è storicamente conosciuto come il MasPok (Masovni Pokret, ovvero movimento di massa) e che, secondo molti, rientra tra le cause del disfacimento jugoslavo.

A vent’anni dalla fine della Jugoslavia, infatti, il serbo-croato o croato-serbo ha smesso di esistere ufficialmente. In Croazia esso è largamente associato a un concetto di dominazione culturale in cui rientrerebbe la stessa Jugoslavia, mentre in Serbia è avvertito come una forma meticcia di una lingua, il serbo, che sarebbe stato così snaturato.

Il serbo-croato ad oggi è dunque una lingua morta, perchè fatta coincidere con una determinata esperienza politica, il cui corso storico si è concluso nel 1992. Da allora, la Croazia e la Serbia hanno cercato di recuperare, nei propri programmi scolastici, gli elementi più autentici che hanno contraddistinto il proprio sviluppo linguistico, e in questo modo Ljudevit Gaj e Vuk Stefanović Karadžić sono diventati rispettivamente il padre della lingua croata e il padre della lingua serba.

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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