RUSSIA: Il dibattito tra Occidente e Oriente. Una questione vecchia di secoli

La logica del pensiero russo non conosce netta divisione tra teoria e pratica, tra teoresi e prassi. Ciò che appare puramente speculativo e utopico per la Russia diventa praticabile e razionale. Da questa mancata distinzione e dal continuo utilizzo di concetti di matrice europea non rilavorati si sono avvicendate situazioni paradossali, come la creazione del primo stato moderno comunista. Qui non è solo l’arte che si fa vita come succedeva per lo scrittore dandy, ma sono la letteratura, la religione, la filosofia che si fanno inevitabilmente prassi politica.

La storia russa potrebbe essere vista come un susseguirsi di atteggiamenti di attrazione e repulsione verso l’Occidente, l’Europa e il modello che questa rappresenta. Le stesse fazioni politiche odierne non sono riconducibili alle categorie di destra o sinistra, quanto sono invece identificabili dal loro europeismo o antieuropeismo. Un rapido scorcio sul significato storico e politico delle correnti di pensiero russe da Pietro I ad oggi, attraverso slavofilismo, occidentalismo, panslavismo, hegelismo, teosofia, eurasismo.

Lo scandalo di Čaadaev

La Russia appartiene più alla geografia che alla storia” scriveva Čaadaev nel 1831. Lo scrittore russo disconosceva l’idea di uno sviluppo storico della sua nazione e gli opponeva le grandi civiltà formatesi in Occidente – in Europa – e in Oriente – in Cina e Giappone. “Per attrarre la minima attenzione su di noi, abbiamo dovuto espanderci dallo Stretto di Bering all’Oder”, continua, ma nella sostanza la Russia non è stata capace di creare nulla né di contribuire allo sviluppo della civiltà umana, e anzi, non è stata nemmeno in grado di assorbire in modo creativo le idee che le altre culture e nazioni hanno apportato allo sviluppo dell’umanità.

Il disilluso straniamento di Čaadaev dalla sua società non è però isolato, per quanto la pubblicazione delle sue Lettere filosofiche (tra l’altro scritte in francese e non in russo) nel 1836 abbia provocato scandalo e sia stata motore della nascita poi di un dibattito importante, quello tra occidentalisti e slavofili.

Il sentimento di sconforto, la cinica constatazione delle lacune della propria nazione, la consapevole incapacità e impossibilità di cambiare le cose in realtà erano diffusi tra i giovani membri dell’intelligencija russa dell’Ottocento; essi si sentivano tutti degli “individui superflui” (lišnie ljudi), pari a quelli che diventarono protagonisti delle loro opere letterarie: i vari Onegin (Evgenij Onegin di Puškin), Pečorin (Un eroe del nostro tempo di Lermontov), Oblomov (Oblomov di Gončarov) sono figli, o meglio nipoti, del nuovo paradigma (per usare la terminologia di Lotman) creato a inizio Settecento dal primo vero rivoluzionario russo, lo zar – anzi imperatore, come voleva essere chiamato, all’occidentale – straniato e straniante Pietro I il Grande.

Il paradigma di Pietro I

Pietro I (1696-1723) ha proprio creato, o meglio imposto, un nuovo paradigma alla società, disprezzando tutto ciò che sapesse troppo di “nazionale russo”, considerando la Russia alla stregua di un popolo di barbari. Educato, come i nobili dell’epoca, su modello occidentale e osservata l’Europa attraverso il consueto “grand tour”, Pietro si invaghì presto dei costumi europei, in particolare quelli superficiali delle corti sontuose nobiliari, e decise che anche la sua Russia non sarebbe stata da meno.

Proseguendo il progetto dei sovrani precedenti di espandersi e imporsi come potenza, il nuovo zar si convinse che l’unica modalità possibile sarebbe stata quella di seguire l’esempio delle forti monarchie europee. Infoltì maggiormente di tecnici e professori europei gli istituti e l’industria, smobilitò nuove forze nell’esercito e militarizzò la società anche civile (introducendo la nota “tabella dei ranghi” che equiparava i titoli civili ai gradi militari, e detronizzava di fatto gran parte della piccola nobiltà, che si ritrovò non solo priva di mezzi ma anche sradicata dalla propria linea genealogica di discendenza aristocratica), semplificò l’alfabeto su modello latino (con l’obiettivo anche di promuovere la stampa), introdusse il calendario occidentale, mise sotto il controllo di un sinodo di laici la Chiesa ortodossa, bandì le tradizionali barbe e i caftani lunghi sostituendoli con i vezzi esteriori degli abiti e delle parrucche europee.

Last but not least, Pietro I è certamente ricordato per la sua città, Pietroburgo: la scelta arbitraria di porre una “finestra sull’Europa” proprio nell’ambiente meno adatto (per clima, geografia, posizione) richiese sforzi, vittime, trasferimenti forzati. Pietroburgo divenne però simbolo, nella sua bellezza affascinante ma terribile, della nuova società russa; la città divenne emblema di una civiltà imposta dall’alto, di un modello di esteriorità preso a prestito, che lascia presagire una terribile eco di vacuità nel profondo. Le svolte dell’imperatore Pietro (non volle più essere chiamato “zar” alla russa) furono così rivoluzionarie e sconvolgenti per l’immobile società russa che spesso venne definito come un “Anticristo”. Principale effetto della sua opera politica fu una immensa, duratura, insanabile spaccatura tra intelligencija e popolo, tra aristocrazia e mondo contadino, tra le idee rinnovatrici di una classe che si esprime meglio in francese che in russo e l’immobilismo politico-sociale di chi non sa nemmeno leggere e scrivere.

Slavofili e occidentalisti

Dopo le prime voci di denuncia del Settecento, principalmente provenienti dagli ambienti massonici (da Radiščev a Fonvizin, da Ščerbatov a Karamzin), furono i membri dell’intelligencija ottocentesca, risvegliati dalle lettere sconfortanti di Čaadaev (che nel frattempo l’imperatore Nicola I si era preoccupato di rinchiudere ed etichettare come pazzo), a porre in discussione l’opera straniante di Pietro I e il futuro della Russia.

Il gruppo dei cosiddetti “slavofili” e quello degli “occidentalisti” nacquero per contrapporsi – alla maniera di un Giano bifronte (la metafora è di Herzen), diamentralmente opposti ma con uno stesso cuore – al pessimismo čaadaeviano: i primi (tra cui Kireevskij, Chomjakov, Aksakov) ribatterono cercando disperatamente l’originalità positiva della Russia pre-petrina e trovandola nella sua forma spirituale, morale e religiosa dell’obščina, la comunità rurale contadina; i secondi (riuniti attorno alla personalità di Stankevič, Belinskij, Bakunin, e in maniera più personale Herzen), meno speculativi e più attivamente politici, appassionati hegeliani di sinistra (“tutto ciò che è reale è razionale”), si battevano per riportare la realtà russa alla razionalità, guardando con ammirazione all’illuminismo e ai moti rivoluzionari europei e denunciando tutti gli aspetti negativi della Russia, quali l’autocrazia (tra loro ricordiamo la presenza importante dell’anarchico Bakunin), la religione, l’alienazione del cittadino (e in particolare il fenomeno degli “uomini superflui”), l’elemento primigenio russo, quello “tataro” e “asiatico”.

Verso la fine del secolo queste due concezioni travisano da una parte – quella slavofila – verso il populismo (Tolstoj, Solov’ëv), l’idea messianica della nazione russa (Dostoevskij, Tjutčev), il nazionalismo aggressivo e imperialista, l’ideologia panslavista (che era già riscontrabile da alcuni scritti di Aksakov, Chomjakov e Danilevskij), l’utopia comunitaria, contadina e anticapitalista (che spianerà la strada al sopravvento del marxismo). Dall’altra – quella occidentalista – verso il “realismo critico” (Dobroljubov, Černičevskij, Pisarev), il positivismo, il materialismo, l’utilitarismo, e il nichilismo (che il filosofo Berdjaev definisce “l’ascetismo ortodosso stravolto”), termine peraltro introdotto dall’occidentalista Turgenev in Padri e Figli.

Tra teosofia e eurasismo

In realtà, oltre a queste due tendenze principali ve ne è almeno un’altra, nata e sviluppatasi discostamente come dottrina dapprima mistica e filosofica, ma che ha percorso silenziosamente la cultura di tutto Novecento e che ha i suoi risvolti, soprattutto politici e ideologici, anche oggi. È la corrente della teosofia, fondata dalla mistica principessa Blavackaja (che aprì a New York insieme al colonnello Olcott la Società Teosofica nel 1875) e legata al pensiero del filosofo Leont’ev.

Secondo questa visione, la Russia non fa parte dell’Europa; le sue origini sono bizantine, cristiano-orientali; i suoi territori sono per gran parte in continente asiatico; il carattere stesso dei russi ha più componenti orientali (dalla pigrizia, all’incostanza, al fatalismo, alla sottomissione, al folle coraggio, al misticismo) che occidentali (democrazia, laicità, secolarizzazione, pragmaticità); la forza della Russia sta nel suo essere multinazionale e multireligiosa e su questa sintesi culturale, non fomentando come in Occidente l’odio e la discriminazione razziale, dovrebbe fare leva.

La teosofia deve sicuramente qualcosa a quel risvegliato interesse per l’esotismo orientale che attraversava tutto l’Occidente e la Russia a fine Ottocento, ma quest’ultima ne era particolarmente sensibile per la sua geografia (inoltre la costruzione della Transiberiana all’epoca compattò, anche idealmente, tutta la Russia) e per il ripiegamento seguito inevitabilmente alla sconfitta nella guerra di Crimea, in cui tutte le nazioni europee si erano poste dalla parte della Turchia contro Pietroburgo. Il gioco anglo-russo di fine secolo in Tibet era permeato della convinzione che la Russia dovesse agire in difesa di questo territorio asiatico, di questa “civiltà degli antenati” attaccata dalla “civiltà dell’oro” (quella occidentale). Il russo Doržiev, diventato consigliere del Dalai Lama, era probabilmente certo della necessità della creazione di uno stato teocratico mongolo-tibetano sotto la protezione russa. E sulla stessa onda si poneva il medico russo-tibetano Badmaev che nel suo La Russia e la Cina (1900) proponeva un progetto politico di penetrazione russa in Oriente, convinto che fossero gli stessi popoli asiatici a desiderare questa protezione.

Dalle teorie mistiche e filosofiche della teosofia, ha preso poi vita il movimento eurasista, che ha coinvolto a partire dal primo Novecento storici, geografi, linguisti, teologi, filosofi. All’idea della forza multietnica della Russia si aggiunge il concetto che questa sia il centro del continente Eurasia. Il libro L’Europa e l’umanità (1910) di Trubeckoj diventa manifesto della lotta contro l’universalismo europeo, contro il suo imperialismo culturale e il suo approccio egocentrico, e nel successivo Il vertice e la base della cultura russa (1920) lo scrittore invita i suoi compatrioti ad abbandonare le idee occidentali, tra cui il comunismo, (il vertice) e recuperare le radici asiatiche (la base): la rivoluzione era avvenuta solo tre anni prima e il nuovo sistema non si era ancora consolidato; Trubeckoj (come altri pensatori dell’epoca, ad esempio Pil’njak) sperava che fosse ancora possibile rigettare l’ideologia comunista e che l’epoca che vivevano fosse solo un periodo di transizione.

Le idee del movimento eurasista, pur non avendo pretese ideologiche, si sono poi spesso, nel corso dei settant’anni di regime sovietico, e sorprendentemente ancora oggi, rivelate serbatoio accessibile al potere per fomentare nell’opinione pubblica atteggiamenti antioccidentali, così come le idee degli slavofili vennero a loro tempo piegate per asservire da una parte al programma dello zar Nicola I (riassunto nella triade “autocrazia, ortodossia e narodnost’ [spirito nazionale]”) e dall’altra, travisate nell’ideologia panslavista, per favorire l’odio fra i popoli nei grandi imperi europei.

Chi è Martina Napolitano

Dottoressa di ricerca in Slavistica presso l'Università di Udine, è direttrice editoriale di East Journal e scrive principalmente di Russia.

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