La guerra ucraina di Putin e la lezione di Milosevic

Chi ricorda la storia delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia, e specialmente il contesto bosniaco, avrà assistito al conflitto del 2014 tra Russia e Ucraina con un sinistro sentimento di déjà vu. Come da copione, alla costruzione retorica del conflitto è seguita l’azione di gruppi paramilitari e truppe sotto copertura. Ma, nel caso ucraino, una soluzione al conflitto resta per ora preclusa.

In primo luogo, le basi del conflitto sono state poste attraverso la costruzione retorica dell’alterità e la narrazione dell’Ucraina come paese diviso da una linea di faglia tra civiltà individuata in base alla differenza linguistica, secondo il modello teorizzato da Huntington già nel 1996. Nel contesto ucraino, etichette linguistiche e nazionali non coincidono (si conta che la maggior parte degli attivisti del Maidan comunicasse in russo) e non esiste alcuna frontiera chiara tra l’uso della lingua ucraina e di quella russa, che scolorano nell’area intermedia del surzhik. A tale complessità si è invece sostituita una narrazione basata sul modello etnonazionale – una lingua, un popolo, uno stato – fondato sul presupposto di inconciliabilità tra comunità differenti ed esclusive.

Dove, ed è stato così nella storia dell’Ucraina indipendente, non erano mai esistite tensioni tra comunità linguistiche o nazionali, tali tensioni sono state presunte e denunciate ex ante come violazione dei diritti dei cittadini ucraini di etnia russa. Vladimir Putin ha così recuperato e attualizzato la “dottrina Karaganov” rendendola però ben più minacciosa verso i suoi vicini. Sergei Karaganov, allora Consigliere del Presidente Boris Yeltsin, aveva sostenuto nel 1993 il diritto della Russia di intervenire nelle altre repubbliche post-sovietiche in caso di cattivo trattamento dei russi etnici, e lo stesso Yeltsin aveva proposto (senza successo) che ai russi etnici residenti fuori dalla Russia venisse garantito uno status superiore con diritti speciali, al di sopra di quelli delle altre minoranze nazionali.

Il passaggio dalla Rossijskaja Federacija, la federazione di tutti i popoli di Russia, al Russkij Mir, il mondo russo inteso in senso etnico e transnazionale, indica una trasformazione quantomeno retorica in senso etnonazionale. Una trasformazione non meno rilevante di quella che portò dalla “fratellanza ed unità” tra popoli della Yugoslavia titina al nazionalismo pan-serbo di Slobodan Milosevic.

La propaganda russa ha recuperato  metafore ed etichette del passato, riversando su una vicenda politica presente una chiara connotazione morale e normativa con il richiamo a stilemi storici (la “nuova lotta antifascista” contro una “junta golpista filonazista” e seguace di Stepan Bandera, nella retorica del Cremlino). Mosca è così riuscita a fare leva sulla popolazione della Crimea e del Donbass, indifferente quando non ostile agli eventi del Maidan ma non per questo intenzionata a prendere le armi o ad abbandonare lo Stato ucraino. Da questa, il Cremlino ha ottenuto quantomeno un consenso permissivo alle proprie azioni. Anche qui, non è difficile vedere il parallelo con la retorica degli anni Novanta in Yugoslavia, in cui la propaganda serba giustificava le proprie azioni come rivolte alla minaccia “neofascista” degli indipendentisti croati e bosniaci, e contro questi ultimi rispolverava stilemi risalenti addirittura alle rivolte contadine serbe ottocentesche contro gli ottomani.

La guerra in corso in Ucraina orientale è una “guerra segreta”, in cui Mosca è impegnata a fondo ma cerca di mantenersi almeno formalmente a distanza, attraverso l’uso di proxy locali, operazioni coperte, e truppe senza indicazioni – pur schierando da mesi un’ingente presenza militare appena oltre il confine, come ha sistematicamente denunciato anche la NATO. In tal modo la Russia spera di mantenere la finzione secondo cui il conflitto in Donbass sia solo una questione interna ucraina, una “guerra civile” in cui Mosca, al massimo, può giocare il ruolo di mediatore esterno, come negli accordi di Minsk. Un pensiero  va così alla tesi ufficiale di Belgrado che quella in Bosnia ed Erzegovina fosse solo una guerra civile, anziché un conflitto internazionale come poi riconosciuto, e al ruolo di Milosevic come rappresentante e negoziatore per conto dei serbo-bosniaci agli accordi di Dayton.

La Russia mantiene formalmente una distanza tra i propri centri decisionali e le azioni sul campo in Ucraina orientale, tramite una tattica di plausible deniability – la tecnica codificata dalla CIA negli anni Sessanta, che prevede l’offuscamento delle catene di comando per evitare le ripercussioni dall’attribuzione della responsabilità per azioni clandestine. Mosca evita così il rischio che le vengano in futuro attribuite le condotte criminali di alcune delle forze in campo. Lo stesso aveva fatto la Serbia di Milosevic, e per tale ragione era stata poi assolta dalla Corte Internazionale di Giustizia dalla responsabilità di genocidio per le azioni dei paramilitari filoserbi in Bosnia ed Erzegovina. Infine, l’uso di tattiche militari ibride o asimmetriche è coerente con la “strategia del carciofo” seguita dal Cremlino. L’aggressione armata all’integrità territoriale di uno stato vicino avviene così come al rallentatore, sottotraccia, ottenendo piccoli vantaggi cumulativi e mantenendosi al di sotto della soglia di reazione degli altri attori internazionali, spinti all’accettazione del fatto compiuto giustificata dall’apertura di dialogo e da tregue e periodi di distensione, puntualmente poi violati.

In sostanza, l’aggressione semi-nascosta all’Ucraina resta caratterizzata dalla volontà di fuggire alle proprie responsabilità più che dalla sfida aperta all’ordine internazionale. Nell’assenza di una giustificazione ideologica, la Russia capitalista e imperialista di Vladimir Putin non può che negare il proprio intervento all’estero tentando di limitarne i costi, in termini economici e diplomatici, già ora elevati.

Ma l’esempio yugoslavo non riguarda solo retorica e strategia. Anche le possibili conclusioni del conflitto trovano alcune possibili similitudini. Da una parte, il Cremlino avrebbe ben visto una soluzione “alla bosniaca”, con un accordo sulla federalizzazione dell’Ucraina da usare come strumento di controllo esterno sulla politica interna del Paese. Ma l’Ucraina ha ormai dimostrato di esser pronta a rinunciare de facto all’integrità territoriale pur di mantenere la propria indipendenza politica conquistata a caro prezzo. Dall’altra parte, a Kiev è piaciuto pensare ad una soluzione “alla croata”, con la riconquista militare dei territori ribelli come compiuto da Zagabria nella campagna di Kraijna dell’estate 1995.

Ma l’aumento del sostegno militare russo ai ribelli del Donbass, sempre più diretto ed evidente dall’estate 2014, sembra aver reso vana anche questa ipotesi. Il conflitto del Donbass e l’occupazione della Crimea rischiano così di trovare posto piuttosto tra gli altri casi di “conflitti congelati” dell’area post-sovietica, utilizzati da Mosca come strumento d’influenza nelle politiche interne degli Stati vicini.

Articolo originariamente pubblicato il 27 gennaio 2015 per Aspenia Online

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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