Era un giorno di novembre. La nascita della Jugoslavia socialista, il "paradiso" dei popoli

Nel cuore della Bosnia-Erzegovina, arroccata tra le montagne, sorge una piccola cittadina di nome Jajce. Questa città, il cui nome significa letteralmente “ovetto”, ed è storicamente conosciuta anche come “la Dubrovnik continentale”, è stata teatro di uno dei più rilevanti momenti storici della penisola balcanica. Il 29 novembre di 71 anni fa, a Jajce, si tenne infatti il secondo Consiglio Antifascista della Liberazione Nazionale della Jugoslavia (AVNOJ), con il quale nacque la Jugoslavia socialista.

Correva l’anno 1943 e il Regno di Jugoslavia era stato attaccato, occupato e smembrato dalle forze naziste e fasciste sin dall’aprile del 1941. Mentre Croazia e Bosnia-Erzegovina venivano inglobate nello Stato Indipendente di Croazia sotto il terrore degli ustaša di Ante Pavelić, sul territorio jugoslavo due diverse fazioni si contendevano la lotta di liberazione nazionale: da un lato i četnici, fedeli alla corona serba in esilio a Londra, e dall’altro le formazioni partigiane del Partito Comunista Jugoslavo, il cui segretario era Josip Broz “Tito“. Quest’ultime prevalsero sul campo di battaglia nelle due principali “offensive nemiche”, la Battaglia sulla Neretva e la Battaglia sulla Sutjeska, proprio nel 1943, liberando molti territori della Bosnia-Erzegovina e convincendo le forze alleate, in primis Winston Churchill, ad appoggiare i partigiani di Tito.

Quando fu chiaro che gli alleati avrebbero scaricato i četnici di Draža Mihajlović, che combatteranno il resto della guerra al fianco dei nazi-fascisti, Tito e i suoi più stretti collaboratori decisero di organizzare la sessione dell’AVNOJ nella piccola cittadina bosniaca.

La nascita della Jugoslavia

La seconda sessione dell’AVNOJ (la prima si era tenuta a Bihać nel 1942) tenutasi tra il 29 e il 30 novembre del 1943, passerà alla storia come la nascita della Federazione Democratica di Jugoslavia.

La risoluzione dell’AVNOJ, partiva dalla premessa del “diritto di ogni popolo all’autodeterminazione, incluso il diritto alla secessione e all’unione con altri popoli, e in armonia con la voglia istintiva di tutti i popoli della Jugoslavia, come testimoniato nel corso dei tre anni di guerra congiunta per la liberazione nazionale che ha forgiato l’inseparabile fratellanza dei popoli della Jugoslavia”.

Su questa base, il consiglio antifascista jugoslavo dichiarava che i popoli della Jugoslavia non riconoscevano l’occupazione imperialista delle forze fasciste, e che la loro lotta comune si poneva a fondamento di una futura unione jugoslava; inoltre, che veniva costituita una federazione che garantirà la più totale eguaglianza tra serbi, croati, sloveni, macedoni e montenegrini, ovvero dei popoli di Serbia, Croazia, Slovenia, Macedonia, Montenegro e Bosnia-Erzegovina; e infine, che lo stesso AVNOJ diveniva l’organo legislativo ed esecutivo supremo dei popoli della Jugoslavia e il loro supremo rappresentante.

La decisione, che entrò subito in vigore e che prevedeva altresì la protezione di tutte le minoranze nazionali, rappresentò per l’epoca una dimostrazione di democrazia rappresentativa, essendo essa il frutto del consenso delle diverse delegazioni nazionali che parteciparono al consiglio. Lo stesso consiglio, infatti, decise che avrebbe annullato l’autorità del governo in esilio a Londra, annunciando però la formazione di un governo di transizione che includesse anche membri del vecchio esecutivo, in attesa di un referendum popolare che avrebbe sancito, una volta finita la guerra, il futuro ordinamento costituzionale.

Unione e Fratellanza: la Jugoslavia socialista

Due anni dopo, il 29 novembre del 1945, in seguito alle elezioni per l’assemblea costituente verrà proclamata la costituzione della Repubblica Popolare Federale di Jugoslavia. In essa verranno ripresi i principi di fratellanza e unione dei popoli jugoslavi sanciti a Jajce, e nel 1946 la Jugoslavia adotterà la sua prima costituzione dell’epoca socialista.

Rispetto alla “prima Jugoslavia” – nata come Regno di Serbi Croati e Sloveni nel 1918 – questo nuovo stato si caratterizzerà per il riconoscimento dell’uguaglianza tra i suoi “popoli costituenti”, in contrapposizione sia al nazionalismo egemonico che a quello sciovinista. Il suo ordinamento socialista rimarrà allineato e fedele ai principi sovietici fino al giugno del 1948, quando la rottura tra Tito e Stalin determinerà un allontanamento politico economico e culturale tra l’Unione Sovietica e la Jugoslavia. Il socialismo jugoslavo svilupperà quindi un proprio percorso “nazionale”, adottando nel 1950 la formula dell’autogestione, un sistema di socializzazione dei mezzi di produzione che garantirà al paese straordinari tassi di crescita. Contemporaneamente, la “questione nazionale” jugoslava assumerà sempre più rilevanza sia dal punto di vista dello sviluppo politico e giuridico che dal punto di vista culturale.

Il federalismo jugoslavo

Mentre il processo di stato-nazione che aveva portato alla nascita del Regno sotto la dinastia Karadjordjević aveva contraddistinto le politiche nazionali in favore dell’egemonia di un popolo sugli altri, la Jugoslavia di Tito assorbirà questo processo nella cornice egualitaria delle sue sei repubbliche costituenti. Lo “jugoslavismo“, movimento culturale e politico nato in Croazia cento anni prima della Seconda Guerra Mondiale, assumerà un nuovo corso dal 1945 in poi, arricchendosi della componente socialista e sviluppando dunque un particolare rapporto tra devolution di potere e autogestione. La questione nazionale jugoslava, così come intesa dalla leadership comunista, verrà quindi affrontata attraverso diverse riforme del sistema federale, garantendo sempre maggiore autonomia e sovranità alle sei repubbliche e le due province autonome.

L’apice di questo processo verrà raggiunto nel periodo compreso tra il 1967 e il 1972 – periodo caratterizzato sia da una rilevante crescita economica ma anche dal ritorno di rivendicazioni di carattere nazionalista – per finire con l’ultima costituzione jugoslava del 1974. Le riforme promosse in questo periodo, infatti, presero in seria considerazione le istanze nazionali rivendicate, estendendo lo status di “popolo costituente” anche alle minoranze nazionali (di cui albanesi e ungheresi rappresentavano quelle maggioritarie) e garantendo a tutte le repubbliche la definizione di “Stato fondato sulla sovranità del popolo e del governo e dell’autogestione di tutti i lavoratori“. In particolare, le repubbliche e le province acquisirono la condizione di “comunità democratica socialista autogestita”, sviluppando dunque il federalismo jugoslavo come riflesso diretto del principio dell’autogestione.

In altre parole, così come l’autogestione aveva garantito alla classe operaia la diretta partecipazione nei processi decisionali attraverso la socializzazione dei mezzi di produzione (e non la loro “statalizzazione” come in Unione Sovietica), allo stesso modo i popoli sovrani autogestivano le risorse e le politiche nazionali all’interno delle singole repubbliche. Autogestione e federalismo jugoslavo si svilupperanno dunque in parallelo, facendo l’uno il rovescio della medaglia dell’altro.

Fine di un sogno

Tuttavia, i tumulti di stampo nazionalista del periodo 1967-1972, per quanto “sanati” attraverso numerose riforme costituzionali, rappresenteranno un punto di partenza storico-politico del futuro disfacimento della federazione a inizio anni 90.

La morte del Maresciallo Tito, il 4 maggio 1980, sarà il primo punto di riferimento a venire a mancare. Il ruolo di arbitro di Tito tra le contese di carattere nazionale aveva fino ad allora garantito l’unione delle sei repubbliche, mentre il ruolo dell’esercito popolare e della Lega dei Comunisti stava a fondamento e garanzia della fratellanza tra i popoli costituenti. Infine, quando anche questi due ultimi baluardi jugoslavi vennero contagiati dal vortice nazionalista dei nuovi governi repubblicani, il sogno socialista jugoslavo si ritrovò al capolinea.

La violenza delle guerre che caratterizzerà il collasso della Jugoslavia, condizionerà per sempre anche l’idea jugoslava, così come la guerra civile e la liberazione partigiana avevano fatto nel secondo dopoguerra, relegando lo “jugoslavismo” ai concetti di “Jugonostalgija” o al massimo “Jugosfera“.

La Jugoslavia, oggi, vive nei ricordi delle persone, nei monumenti ancora presenti e in un giardino di una casa a Subotica, dove un anziano “nostalgico” ha ricreato la “mini Jugoslavia”, perché sostiene che “la Jugoslavia era un paradiso in terra. Un paradiso per tutti. E qualcuno ha voluto prendercelo e appropriarsene.”

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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Un commento

  1. Da chi erano state nominate le delegazioni nazionali che parteciparono al consiglio?
    Erano presenti delegati serbi?
    Il popolo ebbe voce in capitolo per quanto riguarda le decisioni del 29 novembre oppure furono delle decisioni prese in un bunker da un gruppo ristretto di persone?
    In che modo le politiche nazionali del regno favorivano il popolo serbo (il solito mantra, si capisce che ci si riferisce ai serbi, tanto valeva esplicitarlo)?
    Le risulta che tra il 1918 e il 1941 i territori abitati da serbi siano cresciuti economicamente ad un ritmo superiore rispetto, per esempio, alla Slovenia?

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