POLONIA: Miron Białoszewski e le memorie dell’insurrezione di Varsavia

Primo agosto 1944: scoppia l’insurrezione di Varsavia, evento che cambierà tragicamente le sorti della città, della Polonia e della seconda guerra mondiale. Vogliamo ricordarlo qui riportando alcuni frammenti del Pamiętnik z powstania warszawskiego [Memorie dell’insurrezione di Varsavia] di Miron Białoszewski (1922-1983). Pubblicata nel 1970, l’opera rappresenta una testimonianza di rara autenticità, descrivendo la rivolta dalla parte dei civili, ossia da chi subì, ma non partecipò attivamente alla lotta. A ciascuno dei frammenti scelti abbiamo dato un breve titolo tematico. Abbiamo indicato, alla fine di ogni citazione, il numero di pagina corrispondente dell’edizione originale alla quale ci siamo riferiti (Państwowy Instytut Wydawniczy, 2009).

Primo agosto 1944

Martedì primo agosto 1944 non c’era sole, era umido, non faceva troppo caldo. A mezzogiorno forse uscii in via Chłodna (la mia strada allora, numero 40) e ricordo che c’erano molti tram, automobili, persone e che appena uscito all’angolo di via Żelazna mi resi conto della data – primo agosto – e pensai forse ad alta voce: “Primo agosto – la festa dei girasoli.” – Ricordo che ero girato verso via Chłodna dalla parte di Kercelak. Ma perché l’associazione con i girasoli? Perché in quel periodo fioriscono e sfioriscono anche, perché maturano… E perché allora ero più ingenuo e sentimentale, senza malizia, del resto anche i tempi erano ingenui, primitivi, un po’ spensierati, romantici, clandestini, di guerra… Dunque – ma quel giallo doveva pur essere in qualcosa – la luce di quel cattivo tempo insieme al sole che rimbalzava sui tram rossi, come sempre a Varsavia.

Sarò sincero, ricordando quel me stesso in fatterelli, forse troppo preciso, ma in compenso sarà soltanto la verità. Ora ho quarantacinque anni, dopo questi ventitré anni, sto sdraiato sul divano tutto intero, vivo, libero, in buono stato e di buon umore, è ottobre, notte, anno 67, Varsavia ha di nuovo un milione e trecentomila abitanti. (p. 5)

“Le tre distruzioni di Varsavia”

Mattino – dall’inizio: sole, afa, fumi, aerei, bombardamenti, fiamme. Continuo a ricordarlo. Se qualcuno si vuole immaginare le tre distruzioni di Varsavia, settembre 1939; la rivolta nel ghetto, dal 19 aprile al 20 maggio; e l’insurrezione di Varsavia del 1944, tutte ebbero luogo sotto lo stesso sole, afa, incendi, aerei. L’afa, il sole e il cielo azzurro tra incendi, fumo, rimbombi, seppellimenti, aggiungeva a ciò che era così difficile da credere, anche se era così, qualcosa di esotico. (p. 78)

“Varsavia si tradiva di tutti i suoi segreti”

[…] Palazzi spaccati. Soprelevazioni. A più piani. Spaccati in verticale. Di sbieco. In trucioli. Penzoloni. Di calce, canne, tavole, mattoni. Spaventosamente assai. Di questo era tutta Varsavia. Anche i palazzi a cinque piani: canna, calce, mattone, tetti. Cioè macerie. Sparpagliate. Secche. Crepitanti. Schizzavano al primo colpo. Casa dopo casa. Dai buchi dei balconi o dal nulla pendevano cornici di supporto, mensole di lamiera. Dondolavano. Tintinnavano. Sbattevano. Sottili, vuote dentro, quelle che si pensava fossero cornici, muro-marmo. In generale – Varsavia si tradiva di tutti i suoi segreti. Si era già tradita – niente da nascondere. Era già caduta a pezzi. Si interrava. E interrava quei cento anni. E quei duecento. E quei trecento. E oltre. Tutto veniva alla luce. Dall’alto in basso. Dai principi di Masovia. A noi. E al contrario. Staś, Sobieski, i Sassoni, i Waza. I Waza, i Sassoni, Sobieski, Staś, Fukier. I Sobieski, Masysieńka, i Sacramenti.(p. 88)

Le tre Varsavia

[…] Del resto tanti canali fognari quante strade. Cioè un’altra città. La terza Varsavia, contando dalla superficie. La prima in superficie appunto. Quella coi passaggi nei cortili e nei vestiboli. La seconda – quella dei rifugi. Con un sistema di collegamenti sotterranei. E sotto quella sotterranea, quella ancora più sottoterra. (p. 116)

“Morire insieme”

Cioè per la quarta volta la stessa cosa. E di nuovo bisognava iniziare a rassegnarsi alla morte. Oppure a perdere un braccio o una gamba. Che qualcuno di noi potesse morire separatamente, non lo si pensava. Si pensava sempre di morire insieme. (p. 140)

“Tutti insieme condannati a una sola storia”

Inutilmente sputo sentenze. Da tempo altri hanno già fatto sia la storia che le sue conclusioni e le hanno pubblicate. E la cosa è nota. Parlo così per me – da laico. E per altri. Pure laici. Solo questo ci era permesso dire, che eravamo là. Laici e non. Tutti insieme condannati ad una sola storia. Dopo le varie dicerie di settembre ritrovammo una speranza sempre maggiore. Di salvezza. Quindi forse non condannati? Se non si lasciasse succedere la catastrofe in questo pezzo di mondo? Forse valeva la pena di difendere, salvare, cosa si poteva e chi si poteva. Forse a questo punto qualcuno per pietà sorriderà. Adesso? Dopo tutto questo? Proprio così. (p. 180)

Fine dell’insurrezione

[…] Era domenica. Cosa che nessuno sapeva. Oggi come ieri. Si sapeva però che era già ottobre… Ottobre… Ottobre… Incredibile. Il terzo mese? Il terzo. Che giorno? Il sessantaduesimo. Ma all’improvviso al mattino tutto tacque. Il fronte grande – silenzioso. I tedeschi – silenziosi. Noi – silenziosi. Silenzio. Come mai dal primo agosto. L’avevamo saputo prima, l’avevamo immaginato subito, o c’era stato un comunicato-lampo sul cessate-il-fuoco fino alla notte e sulle negoziazioni? Forse un comunicato. Allora è la fine? Veramente? Si sa che se negoziano si mettono d’accordo. Si credeva che non ci aspettasse niente di male, ci si voleva credere, perché se ne aveva abbastanza di insurrezione e di guerra in generale e di odio e di uccisioni e di morti. All’improvviso – era venuta – a tutti – la voglia di vivere! Vivere! Andare! Uscire! Guardare! Il sole. Normalmente.

E all’improvviso tutti cominciarono ad uscire da tutte le cantine, sotterranei, buchi.
In strada!

Né lutto. Né festa. Non si sapeva cosa. Tutto all’improvviso. Semplicemente il riversarsi del popolo sulla superficie.
E uscimmo anche noi. Con tutta la cantina. In via Krucza. In via Krucza c’era già un tale affollamento che si passava appena. Ma chi aveva fretta? Camminavamo con tutta la famiglia: Halina, Zocha, Stacha, mio padre, Swen (poiché arrivò), io, la signora Trafna con la borsetta sotto il braccio. In fin dei conti si trattava di una festa, perché nasconderlo? Camminavamo insieme alla folla. E incrociavamo la folla di gente che andava in direzione contraria.

La folla sgorgava da tutti i portoni, cortili, macerie, sbocchi, traverse. Perché le macerie non mancavano. Tutta via Krucza non era che barricate, buche. Macerie e folle. Ma c’era anche il sole. E quel silenzio cosparso del locale trambusto di riversamento “sulla città”. A ogni angolo si incontravano conoscenti, più lontani, più vicini. Ci si incrociava. Si chiacchierava. Ci si fermava. Si guardava il cielo. Tutti con tutti. All’angolo di via Nowogrodzka entrammo da Irena P. con la madre e con le zie forse. Anche qui c’erano dei fossi. Delle barricate. Ci fermammo. Si diceva qualcosa e si guardava in alto. E all’improvviso nel cielo azzurro io e Swen vedemmo in alto in alto due cicogne volare, il primo ottobre? Lo mostrai a loro, guardarono e niente; si continuava a parlare. Poi subito arrivederci e avanti. Insieme alla folla dietro il Viale, o davanti il Viale attraverso il passaggio sotterraneo.

Eravamo spinti verso via Chmielna, il nostro vecchio tetto. Si era spinti in generale a camminare – camminare – guardare – controllare. C’era un tale casino e una confusione di impressioni; e quelle folle e quel sole; e il silenzio e tante di quelle cose per strada, si stava così stretti, ci si incrociava, che poi non mi ricordo più. […] Subito dopo la piazzetta la situazione si fece terribile.
Di male in peggio. Macerie su macerie. Ammassi su ammassi. Non so che cosa ci aspettavamo. Del resto si sapeva che di via Krucza o di via Wilcza erano rimasti solo monconi e nient’altro. Forse, qua e là, ancora qualcosa, mezza casa o una casa e mezzo. Ma ormai non aveva più senso.
Eppure. Probabilmente si trattava di quello che Adam mi disse quando gli raccontai di quel giorno: “Cosa vuoi, all’improvviso il ritorno alla norma e all’improvviso non c’è più la città, non ci sono più le case, e allora… la disperazione…”
Era proprio così, ormai c’era la calma. Fine. Tutto passato. Duemila persone sopra le macerie. Insieme a Varsavia. (pp. 181-183)

BIOGRAFIA: Miron Białoszewski (Varsavia, 1922-1983)

Autore di raccolte poetiche, di miniature narrative, di lunghi testi in prosa, nonché di testi teatrali, Miron Białoszewski è considerato uno degli scrittori polacchi più originali del XX secolo. Nato a Varsavia il 30 luglio 1922, trascorse qui tutta la sua vita, fatta eccezione per alcuni viaggi all’estero. Morì, di infarto, il 17 giugno 1983.

Durante l’occupazione tedesca non aderì a nessuna delle organizzazioni militari della Resistenza polacca, continuando gli studi liceali nelle scuole clandestine. Dopo il conseguimento della maturità, nel 1943, iniziò gli studi di polonistica, che furono però bruscamente interrotti dallo scoppio dell’insurrezione di Varsavia. Durante i 63 giorni di combattimenti egli si spostò da una parte all’altra della città, alla ricerca di amici e parenti. Pur non prendendo parte attiva alla lotta, era sempre pronto a prestare soccorso: costruire barricate, seppellire cadaveri, disseppellire chi era rimasto sotto le macerie, spegnere incendi,trasportare feriti in ospedale, procurarsi acqua e cibo. Ma soprattutto si sforzava il più possibile di osservare, ascoltare, scrivere, per imprimere nella memoria quello che sarebbe diventato “il più grande evento della sua vita”, come si leggerà poi nel Pamiętnik.

Dopo la caduta della rivolta, Białoszewski si ritrovò tra i deportati, ma presto riuscì a fuggire, ritornando a Varsavia nel febbraio 1945. Qui lavorò prima come impiegato delle poste e in un secondo momento, fino al 1951, come giornalista in diverse testate. I suoi versi, a causa della loro estraneità alla poetica del realismo socialista, potranno comparire in volume solo nel 1956, grazie alla mutata situazione politica. Dopo la pubblicazione della prima raccolta, Obroty rzeczy [Rotazioni delle cose], lo scrittore si dedicherà completamente all’arte, facendo della sua vita il materiale della sua opera, così come nessun altro.

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