MONTENEGRO: dietro le dimissioni di Djukanović

da Narcomafie

Lo scorso 21 dicembre s’è dimesso Milo Djukanović, primo ministro montenegrino, il governante politicamente più longevo dei Balcani e d’Europa. Salì al potere nel 1991, appena ventinovenne. Da allora non s’è più schiodato e ha dettato tempi e ritmi della vita pubblica di Podgorica, riuscendo a conseguire nel maggio del 2006 l’indipendenza dalla Serbia e avvicinando ulteriormente, in questi ultimi anni, la giovane repubblica adriatica all’Europa.

Djukanović, oltre alla longevità politica, è rinomato anche per i presunti legami con le organizzazioni mafiose. Negli anni 90 avrebbe cogestito con la Sacra corona unita il contrabbando di sigarette che a quei tempi caratterizzava il bacino Adriatico, facendo delle coste montenegrine un hub criminale e offrendo protezione ai latitanti pugliesi, secondo l’accusa della Procura di Bari, che arrivò a incriminarlo formalmente. Ma Djukanović, facendosi scudo con l’immunità diplomatica, ha schivato la possibile condanna e la sua posizione è stata archiviata per difetto di giurisdizione nel 2009.
Terminata quella stagione il Montenegro è balzato nuovamente in testa alle cronache criminali, stavolta come lavanderia dei rubli sporchi delle mafie russe. A ridosso e dopo l’indipendenza le coste montenegrine hanno registrato una proliferazione di alberghi, strutture e villaggi turistici, night club e casinò. Tutti o quasi tutti costruiti con finanziamenti d’origine russa provenienti da misteriosi forzieri offshore. Tutti o quasi tutti, risulta da qualche ricostruzione, transitati e riciclati nelle casse della Prva Banka, il principale istituto di credito del paese, controllato dalla famiglia Djukanović e presieduto dal fratello del primo ministro, Aco.

Ultimamente la repubblica adriatica s’è fatta notare come centro logistico dei traffici di cocaina, nuovo grande affare delle mafie balcaniche, coordinato dal serbo Darko Sarić, considerato vicino allo stesso Djukanović. Nella cui banca, così pare, avrebbe girato buona parte dei soldi ottenuti dalla vendita di importanti partite di droga.

Djukanovic lascia nel momento in cui il Montenegro registra un importante passo in avanti sulla via che porta all’Europa. Il 17 dicembre, infatti, il Consiglio dei capi di stato e di governo dell’Ue, su proposta della Commissione, ha conferito alla piccola repubblica adriatica il rango di paese ufficialmente candidato all’adesione, prospettandole la possibilità di entrare nel giro di qualche tempo nella famiglia comunitaria.

Lo stesso giorno delle dimissioni di Djukanović è circolata la voce secondo cui alla base della scelta di farsi da parte ci sarebbe uno scambio con l’Ue. In altre parole, Bruxelles avrebbe garantito al Montenegro lo status di paese candidato all’ingresso a patto che il suo discusso primo ministro uscisse di scena.
In attesa che Wikileaks, chissà, sveli in futuro se questo accordo c’è stato davvero, la prima impressione è che questa lettura non è così convincente, visto che in presenza di forti pressioni europee Djukanović, forse, non avrebbe annunciato di restare comunque alla guida del Partito dei socialisti democratici (Dps), la formazione che da vent’anni a questa parte domina il Parlamento montenegrino. Cosa che gli permette di continuare a controllare alla grande la situazione.

Allora perché le dimissioni? Forse una ragione risiede nello scandalo che ha colpito a inizio dicembre l’uomo forte di Priština, Hashim Thaçi. Sul quale, dopo le elezioni generali del 12 dicembre, che hanno riconsegnato al suo Partito democratico del Kosovo (Pdk) la maggioranza relativa, è piovuta una pesantissima accusa. Dick Marty, relatore dell’inchiesta patrocinata dal Consiglio d’Europa sui crimini di guerra commessi dall’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), ha riferito che Thaçi, che dell’Uck era responsabile politico, comandò ai tempi del conflitto con la Serbia una cricca dedita a ogni tipo di traffico, in primo luogo quello di organi umani, espiantati dai prigionieri serbi e dai civili albanesi non allineati all’ideologia dell’Uck, ammazzati e vivisezionati dai guerriglieri. Non solo. La cosa incredibile è che le cancellerie occidentali sospettavano o addirittura sapevano ciò che stava accadendo. Ma in nome della realpolitik lasciarono correre, visto che allora la priorità era disarcionare Milosevic.

Ma quale sarebbe il legame tra l’affaire Thaçi e le dimissioni di Djukanović? Milka Tadić, direttrice di Monitor, settimanale montenegrino molto critico con il potere, ha recentemente sostenuto che lo scandalo kosovaro sta facendo passare notti insonni a Djukanovic, dato che tra lui e Thaci ci sono parecchie analogie, se è vero che entrambi hanno sempre contato sul sostegno occidentale (dopotutto il Montenegro faceva comodo in funzione antiserba) e sono stati accusati di attività mafiose, più o meno sanguinose. Senza contare che i diplomatici occidentali accreditati a Podgorica, ha riferito Milka Tadić, ammettono ormai senza più remore, in privato, che il Montenegro è come il Kosovo: uno stato-mafia.

Che sia questo il vero motivo delle dimissioni? È possibile che Djukanović abbia pensato di fare un passo indietro prima che gli occidentali dicano pubblicamente ciò che pensano privatamente e che i montenegrini spalanchino gli occhi e lo spediscano a casa? Non è da escludere.

Come non è da escludere che i magistrati di Bari riaprano il procedimento a suo carico, essendo venuto meno, con le dimissioni, l’elemento dell’immunità diplomatica. Ma c’è da credere che le toghe, prima di intraprendere qualche passo, attenderanno le sue mosse. Perché se Djukanović farà come a fine 2006, quando a pochi mesi dell’indipendenza si dimise all’improvviso annunciando di avere esaurito la sua missione e di volersi dare all’imprenditoria turistica, salvo poi tornare sui suoi passi e riprendersi il premierato nel febbraio 2008, sarebbe nuovamente coperto dall’immunità diplomatica.

Non basta. Si tratterà anche di capire se ci saranno le condizioni politiche affinché l’opzione giudiziaria, eventualmente, reingrani. Considerati i notevoli investimenti energetici effettuati recentemente dall’Italia in Montenegro e conditi da tanto di polemiche e sospetti sul ruolo guarda caso della Prva Banka (si veda l’articolo di Matteo Zola sul sito di Narcomafie, “Torbido Adriatico, l’elettrodotto tra Montenegro e Abruzzo che sa di mafia”), qualche dubbio lo si può anche nutrire. Ma, appunto, sono dubbi. Perché questa vicenda è come una storia a bivi: può succedere tutto, il contrario di tutto, com’anche niente.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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