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UCRAINA ELEZIONI /4: Il voto al di sopra di tutto, ma potrebbe non bastare

Le elezioni presidenziali di domenica sono considerate a Kiev, così come a Bruxelles e Washington, come un traguardo imprescindibile per il futuro dell’Ucraina. Ma potranno davvero bastare per riportare l’unità e la stabilità, come ha ottimisticamente sottolineato Barroso? Saranno sufficienti per ridare credibilità alla classe politica che ha portato l’Ucraina sull’orlo della guerra civile? Riusciranno a soddisfare i criteri di democraticità e libera competizione elettorale di cui l’UE si è sempre fatta portatrice orgogliosa?

Le elezioni si faranno, ma non ovunque

La data delle elezioni è stata in bilico fino a qualche giorno fa, quando il Parlamento ha approvato una legge speciale per permette lo svolgimento delle presidenziali anche in condizioni eccezionali e in concomitanza con attività militari sul territorio nazionale. Già in precedenza, in seguito ai fatti di Crimea, la legislazione è stata modificata per autorizzare il regolare svolgimento delle elezioni anche in caso di mancata partecipazione di alcune sezioni elettorali. Questi atti della Verhovna Rada hanno diminuito la probabilità di vedere annullate o posticipate le consultazioni, ma potrebbero avere l’effetto collaterale di limitare la legittimità dei suoi risultati. Può una legge dell’ultima ora bastare per dare credibilità a elezioni presidenziali svolte durante un “operazione anti-terrorismo” che coinvolge l’esercito in vaste regioni del paese?

Nonostante l’uso della forza, Kiev non detiene il controllo sulla totalità del territorio nazionale e a Lugansk e Donetsk non si voterà. Di fronte a questa situazione difficilmente un nuovo presidente potrà avere la legittimità e la forza per ristabilire l’unità e l’ordine nel paese. Senza una profonda riforma strutturale della costituzione, l’Ucraina, con o senza le elezioni di domenica, sembra destinata a rimanere divisa e instabile.

Elezioni, e poi?

Dal punto di vista politico, le elezioni non cambieranno la composizione e la struttura del Parlamento. Non incideranno, quindi, sulla concreta governabilità che, secondo la Costituzione del 2004 reintrodotta a fine febbraio, risiede nel governo e nella Verhovna Rada. Il problema principale sta proprio qui. Il massimo organo legislativo è stato eletto più di un anno fa (ottobre 2012), molto prima dello scoppio della crisi. Il Partito delle Regioni, che deteneva la maggioranza, si è praticamente sgretolato e molti dei suoi parlamentari si sono uniti ad altri gruppi o sono rimasti come indipendenti. Il partito di Yulia Timoshenko, Patria, ha ora il controllo del Parlamento ed esprime il Primo Ministro, l’attuale Presidente ad interim e numerosi Ministri, mentre Udar, il partito che sostiene il favorito Poroshenko, può contare solo su 42 deputati.

Sebbene il nuovo presidente potrà decidere di sciogliere il Parlamento ed indire nuove elezioni, i tempi tecnici di tale manovra non potranno essere brevi. Inoltre, svolgere elezioni parlamentari senza aver indirizzato la questione dell’unità e dell’integrità territoriale del paese, potrebbe sancire la definitiva secessione delle regioni di Lugansk e Donetsk, cosa che Kiev deve e vuole assolutamente evitare. Formare un governo che possa sostenere l’azione del nuovo presidente, chiunque esso sia, appare un compito piuttosto complesso che potrebbe richiedere tempo e capitale politico, mentre ricorrere a elezioni della nuova Verhovna Rada in un periodo di crisi non garantisce automaticamente la stabilità e comporta il rischio di un’ulteriore polarizzazione del conflitto.

L’insuccesso del meeting nazionale

Anche la cosiddetta tavola rotonda, ultimo tentativo di promuovere un dialogo nazionale in vista di domenica, si è dimostrata non solo un fallimento dal punto di vista formale, dato che i rappresentanti delle regioni di Donetsk e Lugansk non sono stati invitati (mentre vi ha preso parte il vecchio Presidente Kuchma), ma anche da quello pratico, visto che sono emersi numerosi contrasti tra i leader dell’attuale governo. La serie di meeting che si sono svolti a Kiev, Kharkiv e Mykolaiv non hanno prodotto risultati tangibili se non un vago Memorandum della pace che mette sul piatto alcuni temi importanti, ma senza un approccio programmatico.

Il voto al di sopra di tutto

Altri punti cruciali riguardano la sicurezza e la trasparenza del voto. In un paese che da mesi vive nel caos la preparazione delle elezioni, su ammissione stessa del Ministro degli Esteri Andriy Deshchytsia, è stato un compito piuttosto complesso.

Se gli oltre 2000 osservatori internazionali sembrano preoccupati soprattutto della sicurezza e della regolarità a Est, ci sono numerosi, legittimi, dubbi sul regolare svolgimento delle consultazioni anche in altre regioni e a Kiev. Evitare pressioni e intimidazioni sembra un compito piuttosto difficile. Le ricadute sull’affluenza e sul regolare svolgimento del voto potrebbero essere non trascurabili, nonostante le 75.000 unità (tra polizia e i non meglio individuabili “membri della collettività”, probabilmente componenti dell’autodifesa di Maidan) che avranno il compito di vigilare sulla sicurezza in tutto (o quasi) il paese.

Sistema oligarchico 2.0

In definitiva le prossime elezioni rappresentano un punto di non ritorno per il paese e per il movimento di protesta nato a fine novembre. I pochi candidati che hanno attivamente partecipato all’EuroMaidan difficilmente raccoglieranno più di qualche punto percentuale, mentre i favoriti, Poroshenko (su tutti), Timoshenko e Tigipko, rappresentano perfettamente la medesima classe politica che ha guidato il paese negli ultimi vent’anni. La caduta di Yanukovich ha rappresentato la fine del dominio di un singolo clan, ma non ha minimamente intaccato il sistema oligarchico alla base della struttura politica ucraina. Per certi versi questo sistema è stato paradossalmente rafforzato proprio sotto gli occhi vigili di Maidan, quando Kiev ha nominato i vari oligarchi locali come amministratori delle regioni orientali.

Il futuro, con o senza il nuovo presidente, rimane incerto e il rischio di un’ulteriore escalation verso il conflitto civile sembra tutt’altro che scongiurato. Mosca e Washington rimangono alla finestra valutando le prossime mosse.

Chi è Oleksiy Bondarenko

Nato a Kiev nel 1987. Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università di Bologna (sede di Forlì), si interessa di Ucraina, Russia, Asia Centrale e dello spazio post-sovietico più in generale. Attualmente sta svolgendo un dottorato di ricerca in politiche comparate presso la University of Kent (UK) dove svolge anche il ruolo di Assistant lecturer. Il focus della sua ricerca è l’interazione tra federalismo e regionalismo in Russia. Per East Journal si occupa di Ucraina e Russia. Collabora anche con Osservatorio Balcani e Caucaso.

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Un commento

  1. Non sarei così negativo circa le difficoltà del sistema politico ucraino. Se è indubbiamente vero che buona parte delle dinamiche politiche del paese tendono a risolversi in una partita tra oligarchi e potentati economici, magari tesi principalmente a tutelare i propri interessi immediati piuttosto che quelli nazionali, questo comunque permette un dibattito e una partecipazione decisamente maggiore che non negli altri paesi ex sovietici, Russia compresa.
    Insomma non siamo al mortale e ingessato immobilismo stile bielorusso o delle repubbliche centro asiatiche (con tanto di culto della personalità), ma nemmeno al fin troppo dinamico autoritarismo e conservatorismo ultranazionalista e parafascista di Putin.
    Il nuovo presidente ucraino si dovrà barcamenare tra infiniti problemi, ma sicuramente (e fortunatamente) non dovrà incarnare l’UOMO DEL DESTINO, sirena che sembra incantare molti in Russia e fuori. L’ultima cosa che ha bisogno l’Ucraina è un nuovo uomo forte che dialoghi o prenda ordini dall’Alto Autocrate del Cremlino: molto più modestamente servirebbe qualcuno che riesca a pilotare il paese fuori da queste secche “imperiali” e “imperialiste”, in un più modesto e tranquillo sviluppo economico e sociale. O almeno ci tenti, carri armati e aiuti fraterni permettendo.

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