Alcune domande su Eni e Mosca

di Massimo Mucchetti

E’ possibile che l’amicizia speciale tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin abbia distorto gli storici rapporti tra Eni e Gazprom a favore del Cremlino? È possibile che a una tale distorsione abbia contribuito l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, per conquistare e conservare l’ambita poltrona? Queste sono le domande che pongono i cablogrammi inviati dalle ambasciate americane in Italia e Georgia a Washington e ora rivelati da Wikileaks.

Che l’Eni sia uno Stato nello Stato, legatissimo al governo, non è una scoperta, ed è anche giustificabile: la politica energetica è un pilastro della sicurezza nazionale. Che l’Eni abbia a libro paga dei giornalisti sarà certo oggetto di smentita, e noi non abbiamo prove per avvalorare i sospetti americani, anche se sappiamo bene come il cane a sei zampe – in questo simile ad altri grandi gruppi pubblici e privati – sappia esercitare le sue pressioni sull’informazione. Che, invece, l’Eni possa subordinare le sue scelte strategiche verso il grande fornitore russo ad accordi opachi, raggiunti a quattr’occhi tra il premier italiano, formatosi alla scuola della tv commerciale, e il nuovo zar, addestrato dalla tremenda scuola del Kgb, questo è un rischio serio e grave. Del quale dovrebbero rispondere sia il top management di una società che è quotata in Borsa, sia il governo italiano, in particolare il ministro dell’Economia, titolare della maggioranza relativa dell’Eni, e il suo collega dello Sviluppo economico, che dovrà pur avere un’idea sul futuro energetico del Paese.

Il pericolo di una distorsione delle relazioni italo-russe sul gas non è di oggi. Si affaccia per la prima volta nel 2005 con l’affare Mentasti. Grazie alla liberalizzazione del mercato, Gazprom cerca l’accesso diretto ai consumatori italiani. Perciò tratta il riacquisto, per poi poterla rivendere in proprio, di una quota pari al 10-15% del gas già ceduto all’Eni. La tratta al prezzo di frontiera, che è circa la metà del prezzo di vendita in Italia. L’Eni dovrebbe rinunciare a circa 280 milioni di margine annuo per 15-20 anni e passare il malloppo a un’emanazione viennese di Gazprom, la Centrex. Tra i soci di rilievo della società danubiana spunta Bruno Mentasti, l’ex patron della San Pellegrino. Se ne fa mallevadore Alexander Medvedev, ex agente del Kgb e numero due di Gazprom. L’Eni nicchia per due anni e infine, il 10 maggio 2005, firma un memorandum of understanding per mano di un dirigente, non del capo azienda Vittorio Mincato che, in scadenza di mandato, lascia ai successori l’accordo vero e proprio e la decisione finale. Il 16 giugno, racconterà anni dopo Paolo Guzzanti senza essere smentito, il contratto viene firmato da Scaroni, fresco di nomina. L’affare sembra fatto, ma a luglio il Corriere lo rivela. E allora in consiglio e tra i sindaci fioriscono dubbi che portano a un audit che a ottobre lo boccia come non conveniente.

L’anno dopo, Berlusconi perde le elezioni e gli accordi con Gazprom si faranno, con Romano Prodi al governo e un po’ più di liberalizzazione, nel 2007 su scala più vasta, ma senza intermediari strani. Gazprom vende a clienti italiani fino a 9 miliardi di metri cubi e l’Eni ottiene una lunga proroga dei contratti take or pay in base ai quali i russi si impegnano a vendere e gli italiani a comprare quantitativi dati a prezzi decisi secondo un meccanismo prestabilito, legato al petrolio, e se non ritiri paghi comunque.

Senonché, nel frattempo, in America inizia una rivoluzione tecnologica che rende abbondante il gas, e dunque riduce in prospettiva la centralità dei fornitori storici, Russia, Algeria e Libia. Nel 2005 si producono le prime quantità di shale gas, gas estratto da rocce scistose, tipiche del sottosuolo delle zone ex carbonifere, attraverso potenti getti d’acqua mista a solventi. In tre anni questo gas non convenzionale emancipa gli Usa dalle importazioni e fa crollare i prezzi sul mercato spot alla metà di quelli take or pay. Mentre finalmente il prezzo del gas comincia a divorziare da quello del petrolio e a costare meno, l’Eni insegue la benevolenza del Principe fatalmente ignorante in materia, ottiene la proroga dei contratti (che conviene soprattutto al venditore Putin) ma senza incidere sui meccanismi di prezzo (che converrebbe soprattutto all’Italia, compratrice finale). Intendiamoci, anche altri big europei scoprono la novità solo dopo che le major americane hanno fatto incetta dei pionieri dello shale gas. Ma l’Eni di Mattei era all’avanguardia, ora non più. E lo dimostra l’insistenza sul South Stream, il nuovo gasdotto che Gazprom vuole posare con l’Eni sul fondo del Mar Nero per aggirare l’Ucraina da dove passano i tubi per l’Europa centro-meridionale.

Si tratta di un progetto gemello del Nord Stream, che attraverso il Baltico raggiungerà la Germania, per dare addio alla Polonia. Il Cremlino vuole evitare che i vicini impongano diritti di passaggio eccessivi e vuole anche inondare l’Europa di gas, con nuovi contratti lunghi. Il disinibito Putin offre la presidenza del Nord Stream a Gerard Schroeder, che da cancelliere aveva firmato l’accordo e da ex accetta la ben retribuita poltrona. E quella del South Stream a Prodi, che invece declina. Berlusconi resta il grande sponsor. Perché? Wikileaks conferma le indiscrezioni sui timori geostrategici americani. Ma le domande tutte italiane sono più semplici: perché l’Eni si impegna in un investimento miliardario per raddoppiare le onerose importazioni dalla Russia quando c’è tanto gas più a buon mercato nel mondo e il governo promette il nucleare? Chi ci fa l’utile?

Fonte: Massimo Mucchetti, dal Corriere della Sera

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