Rischi ed opportunità dell'allargamento UE. Intervista a Davide Denti

Pubblichiamo un’intervista al nostro redattore e collaboratore Davide Denti, apparsa sul sito Mentinfuga.com. 

Non pensa che l’allargamento ad est abbia snaturato il nucleo storico e favorito le leadership tedesca accelerando o quantomeno aggravando la crisi attuale?

Euro e allargamento a est sono stati i due progetti politici fondamentali dell’Unione Europea a partire dal suo rilancio a Maastricht negli anni ’90, e hanno seguito percorsi paralleli. La crisi attuale dell’eurozona ha radici ben diverse dall’allargamento: deriva dalla mancanza di coraggio che gli stati membri ebbero a Maastricht, nel non dotare la nascente moneta unica di un corrispondente governo politico. Se non se ne è ancora trovata un’uscita definitiva, è anche per via della timidezza di molti governi soprattutto di centrodestra dei paesi membri UE, non solo di quello tedesco, nello scegliere una via comune europea e un’approfondimento dell’integrazione in senso democratico e federale, con la creazione di una unione bancaria, fiscale e politica.

L’allargamento non ha snaturato l’Unione, anzi: le istituzioni hanno continuato a funzionare normalmente, anche nell’iniziale assenza di una riforma dovuta al rigetto francese e olandese del Trattato costituzionale nel 2005 e ai conseguenti quattro anni necessari prima che il Trattato di Lisbona entrasse in vigore nel 2009. La crescita economica portata dall’integrazione industriale tra nuovi e vecchi stati membri ha portato benefici tanto per i paesi dell’Europa occidentale quanto per quelli dell’Europa centrale e orientale: una maggiore integrazione del mercato ha permesso di sfruttare meglio i vantaggi comparati dei diversi territori, spingendo la specializzazione tecnologica. L’efficienza economica dei sistemi produttivi tanto all’est quanto all’ovest ne ha guadagnato, grazie all’aumento della competizione sui mercati, la possibilità di maggiori economie di scala, e la differenziazione produttiva. E i paesi dell’Europa centro-orientale hanno iniziato a vedere i propri livelli di reddito convergere sugli standard occidentali, anche se la strada da fare è ancora lunga.

Certo la Germania, tra tutti i paesi UE, è stata quella che ha saputo meglio sfruttare le potenzialità dell’allargamento, attraverso un’integrazione industriale densa con paesi come Polonia e Repubblica Ceca. La Gran Bretagna e l’Irlanda, non confinando direttamente con tali paesi, hanno invece favorito l’immigrazione di giovani e specializzati lavoratori polacchi. L’Italia si è limitata ad un processo di integrazione industriale con la Romania e i paesi dell’Europa sud-orientale (quella che si definiva “delocalizzazione”, si veda l’esempio degli impianti Fiat in Serbia e in Polonia) ma non è riuscita ad ottenere vantaggi altrettanto sostanziali.

Parliamo di Patto di bilancio europeo, il cosiddetto fiscal compact. Crede che l’allargamento dell’UE irrigidisca ulteriormente i Paesi nordici e renda sempre più complicata una sua messa in discussione come ci si augura da più parti?       

Il patto di bilancio è stato approvato nel 2012 tramite accordo tra i governi di 25 paesi membri sugli allora 27 (ne sono rimasti fuori Regno Unito e Repubblica Ceca), di diverso colore politico, benché in gran parte di centrodestra. Una sua revisione verrà solo nel momento in cui la maggioranza dei governi dei paesi membri UE svolterà a sinistra. L’allargamento ha poco a che fare con tutto ciò: non sono i nuovi paesi membri dell’Europa centro-orientale ad essere caduti vittima della crisi, quanto quelli dell’Europa meridionale: Portogallo, Spagna, Grecia, Cipro. I paesi d’Europa centro-orientale che si sono trovati in difficoltà hanno saputo reagire, anche attraverso tagli dolorosi, e ritrovare crescita e competitività, come nel caso di Estonia e Lettonia.

Vista la tradizionale diffidenza della Gran Bretagna verso Polonia, Ungheria e altre nazioni in che misura l’allargamento ha favorito gli euroscettici inglesi anche perché l’associazione con economie deboli non sembra aver favorito lo sviluppo economico dell’UE.

Al contrario, uno dei punti forti dell’allargamento è stato nell’accoppiare economie avanzate come quelle dell’Europa occidentale con economie relativamente meno avanzate come quelle dei nuovi paesi membri, favorendo la specializzazione reciproca e producendo benefici in linea con le teorie del commercio internazionale basato sui vantaggi comparati. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, proprio per tali ricadute economiche, così come per la sua visione dell’Europa come grande area di libero scambio, Londra è sempre stata favorevole all’allargamento, e i governi laburisti di Blair e Brown decisero nel 2004, assieme a Irlanda e Svezia, di non introdurre periodi temporanei di restrizioni all’ingresso dei nuovi cittadini UE nei mercati del lavoro. Il conseguente flusso di circa mezzo milione di giovani e qualificati lavoratori dalla Polonia e dalla Lituania è stato uno dei fattori alla base della buona prestazione economica del Regno Unito nell’ultimo decennio (così come di quella dei due paesi d’origine).

Tuttavia, gli euroscettici dello UK Independence Party e i famigerati tabloid scandalistici britannici hanno utilizzato il fattore immigrazione per dipingere un’immagine, inesistente nei dati (in mediai migranti europei nel Regno Unito contribuiscono per il 34% in più, in tasse, rispetto a quanto ricevano come sussidi), di un’invasione di cittadini UE dai nuovi paesi membri che beneficiano “a scrocco” dei servizi sociali inglesi, riuscendo così a spingere i Tories, ma sempre più anche il Labour, verso posizioni contrarie alla libertà di movimento nell’Unione europea. Inoltre, Londra è molto dipendente dai servizi finanziari (banche, assicurazioni e agenzie di rating) concentrati nella sua city, e teme sempre più la possibilità che l’integrazione fiscale e bancaria dell’eurozona si trasformi in una limitazione delle sue prospettive di crescita, motivo per cui Cameron decise di restare fuori dal patto di bilancio. Questi due fattori spiegano l’attuale visione negativa dell’integrazione europea da parte del Regno Unito.

Dopo manifestazioni, scontri e polemiche l’Ucraina sembra dover rimanere nell’orbita Russa. Cosa ne pensa? E ritiene che il confronto con Putin tenderà ad inasprirsi e complicare eventuali accordi con altri Paesi di quell’area?

L’Ucraina si trova in una posizione scomoda: all’intersezione tra il “vicinato europeo”, l’anello di paesi amici che, nella visione di Prodi da presidente della Commissione europea nel 2003, dovrebbe circondare l’UE allargata, e l’“estero vicino” della Russia, che nella visione di Putin invece costituisce un’area in cui Mosca intende recuperare influenza diretta. Le relazioni tra UE e Russia, queste sì, sono cambiate con l’allargamento UE e l’ingresso nell’Unione di una serie di paesi, Polonia e baltici in testa, che hanno della Russia una visione fortemente negativa, giustificata da più secoli di difficili lotte per l’indipendenza. Allo stesso tempo, la risorgenza di una Russia putiniana, autoritaria ed assertiva nell’usare l’arma energetica ai suoi fini, non ha certo migliorato la questione. Russia e UE non hanno ancora ritrovato un modus vivendi, malgrado condividano diversi obiettivi di lungo periodo: la Russia è oggi un’economia di mercato, interessata a che anche i paesi–cerniera con l’UE lo diventino (è il caso della Bielorussia, regime autoritario ad economia prevalentemete statale) o lo rimangano. Per l’UE, la Russia resterà ancora a lungo un’importante fonte energetica, mentre per la Russia la relazione con l’UE è l’unica possibilità di modernizzazione economica per un paese in irrimediabile declino demografico. Gli accordi di associazione e libero scambio proposti dall’UE ad Ucraina e agli altri stati del vicinato non sono alternativi agli accordi simili che già esistono tra i vari paesi post-sovietici; al contrario, il progetto putiniano di unione doganale costituirebbe una barriera che taglierebbe fuori la Russia e i suoi satelliti dalle relazioni economiche con l’Europa, il mercato avanzato più vicino all’area post-sovietica. Le questioni di democrazia e diritti umani nell’area post-sovietica resteranno ancora a lungo un elemento di discordia, anche se altri stati dell’area continuano il loro cammino europeo sottotraccia: è il caso di Georgia e Moldavia, che hanno firmato a novembre un’accordo d’associazione all’UE simile a quello rifiutato dal presidente ucraino Yanukovych, e che si avviano a veder sollevate le restrizioni sui visti Schengen per i loro cittadini.

Soprattutto nell’Europa mediterranea, ma anche in altri paesi assistiamo a un progressivo distacco dai cittadini dai partiti e una sfiducia montante nella politica, qual è la situazione in  paesi che hanno chiesto l’ingresso nella unione europea e quanto sono forti le destre di quei paesi?

Una delle eredità del cinquantennio socialista sulle società d’Europa centrale e orientale è stata quella di una generale smobilitazione e di una forte sfiducia e disincanto nelle istituzioni pubbliche. Così, è tipico che la partecipazione elettorale sia più bassa rispetto agli standard occidentali, tanto nelle elezioni nazionali quanto in quelle europee. Allo stesso tempo, i sistemi politici dei nuovi paesi membri si sono armonizzati abbastanza velocemente allo schema presente negli altri paesi UE: le famiglie politiche europee (verdi, socialisti, liberali, popolari, conservatori) sono riuscite ad integrare senza scossoni i principali partiti. Oltre ad alcuni paesi in cui la competizione elettorale tra destra e sinistra segue canoni a noi familiari (Estonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Ungheria – nella specificità di quest’ultima, dominata da anni dal partito di Orban) diverse peculiarità nazionali rimangono: così, nella Polonia democratica nata dall’esperienza del sindacato cattolico Solidarnosc, la competizione elettorale nazionale si gioca principalmente tra partiti centristi e di destra, mentre la sinistra è marginalizzata. In Lettonia, la competizione è bloccata tra una coalizione costituzionale nazionalista al potere e un partito russofono d’opposizione più tendente a sinistra. In altri paesi, infine, partiti xenofobi o d’estrema destra fanno da stampella a coalizioni di centrosinistra, come avviene oggi in Lituania, dove gli estremisti di TT sostengono un governo socialdemocratico, o in Bulgaria, dove il partito d’estrema destra Ataka permette ai socialisti di garantirsi una maggioranza.

Per quanto riguarda gli attuali stati candidati all’adesione all’UE – i paesi balcanici eredi della Jugoslavia, l’Albania e la Turchia – la situazione dei sistemi politici non è troppo diversa. In Turchia, la progressiva democratizzazione e liberalizzazione degli anni ’90 ha portato al potere da ormai più di 10 anni il partito islamico moderato AKP, che ha inizialmente ancorato la democrazia e le libertà nel paese, in parallelo all’apertura dei negoziati d’adesione, nonostante la sua spinta riformatrice sembri essersi ormai esaurita, come dimostrato dalla violenta repressione delle proteste di Gezi Parki e dallo scandalo corruzione di questo scorso mese. In Albania e nei principali paesi post-jugoslavi (Serbia, Croazia, Macedonia) la competizione elettorale si svolge principalmente tra un’alternativa socialdemocratica e una conservatrice/liberale. Fanno eccezione la Bosnia-Erzegovina, dove i partiti sono ancora ancorati alle divisioni etnonazionali, e il Montenegro, dove il partito del presidente Djukanovic, erede della nomenklatura socialista jugoslava, è sostanzialmente al potere del piccolo paese adriatico sin dai primi anni ’90, senza un’alternanza che ne verifichi le credenziali democratiche. Un problema, quest’ultimo della state capture, che non è estraneo anche ad altri paesi vicini, dalla Bulgaria al Kosovo.

In tutti questi paesi permane un forte distacco tra popolazione e classe politica, ereditato dal periodo socialista ma anche, nei territori post-jugoslavi, dall’esperienza della guerra degli anni ’90. Un certo risveglio sembra tuttavia prendere piede, legato soprattutto a rivendicazioni ecologiste e anti-corruzione. Così in Romania, dove alle proteste di piazza del 2011-12 ha fatto seguito la mobilitazione contro lo sfruttamento minerario di Rosia Montana; ugualmente in Bulgaria, dove ad una prima ondata di proteste che aveva portato alla caduta del governo conservatore di Borisov ha fatto seguito una mobilitazione permanente contro l’attuale governo socialista di Oresharski, accusato di corruzione. Allo stesso modo in Albania le proteste di piazza del 2011 contro l’ex premier Berisha, accusato di aver truccato le elezioni del 2008, e conclusesi con tre morti, hanno portato ad una pacifica transizione al potere con la vittoria socialista del 2013 e, subito dopo, alla mobilitazione ecologista contro la possibilità che le armi chimiche siriane venissero smaltite nel paese – una battaglia vinta, per la prima volta, dai cittadini albanesi che sono riusciti a farsi ascoltare dal proprio governo. E ugualmente in Bosnia-Erzegovina, dove nell’estate del 2013 la bebolucija – la rivoluzione dei bebé – ha portato i cittadini in piazza a Sarajevo e in altre città, per una prima volta di un attivismo democratico, spontaneo e inter-etnico, volto a spingere una politica considerata corrotta e irresponsabile ad occuparsi della situazione pressante dei bambini nati senza codice fiscale e impossibilitati a recarsi all’estero per curarsi. Tutti questi episodi, passati sottotraccia nei media italiani, così come le grandi proteste giovanili di Gezi Parki a Istanbul la scorsa estate, parlano di società civili che non si accontentano di votare una volta ogni quattro o cinque anni e poi di stare a casa, ma che iniziano a preoccuparsi della qualità della democrazia nei propri paesi.

Foto: ec.europa.eu

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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