Il cimitero di Praga e altri libri senza l'Eco

di Gabriele Merlini

Mi rincuora il fatto che «Il cimitero di Praga» [di Umberto Eco, in questi giorni nelle librerie con tirature  colossali] abbia poco a che spartire con Praga. Sul perché di simili sentimenti posso solo formulare vaghe ipotesi e tra queste forse la più presentabile è che, quando si ama qualcosa, alla fine vorremo essere sempre gli unici depositari del sapere al riguardo, con ogni intromissione esterna che finisce per avere la piacevolezza di una visita dei ladri in casa. Una forma di egoismo prettamente infantile o l’eccessivo timore per una potenziale perdita dettata da una inaspettata fuga di notizie: minima idea. Ad ogni modo meglio così.

La trama del testo di Eco parrebbe riguardare tutto lo scibile umano degli ultimi duecento anni, sfiorando solo marginalmente la capitale vltavina. Però devo ammettere come -nonostante i miei sforzi per ridurre al silenzio qualsiasi altra voce a tema- di libri su Praga in circolo ce ne siano un bel po’. East Journal e geopolitiche permettendo, proporrei un piccolo excursus al riguardo, limitandomi ai volumi che ho letto (per intero o solo le prime dieci pagine) a carattere narrativo e saltando a piè pari la saggistica propriamente detta, più o meno affrontabile e digeribile.*

Com’è ovvio che sia la «Praga magica» del Ripellino deve stare all’inizio di una qualsivoglia lista del genere. On-line e su carta fiumi di analisi al riguardo dunque evitiamo di misurarci anche qui nell’esercizio, riportando solo un dato (questo: trattasi di una tra le più belle lettere d’amore mai scritte) e la seguente citazione in odore di inno: «da qualche anno si è appresa alla mia fantasia la nezvaliana metafora che rassomiglia Praga ad una cupa nave attaccata da legni corsari, che cannoneggiano le torri di Hradčany da tutte le parti d’Europa. Da qualche anno nella lontananza mi sembra che le architetture della città vacillino pronte a crollare. […] Ma tutto questo è delirio, nebbia di una inventiva malata, robaccia da untori. Perché, come il poeta Karel Toman afferma, l’unica legge è germogliare e crescere. Crescere nella tempesta e nelle intemperie a dispetto di tutto. Dunque alla malora gli aruspici e le puttanesche sibille: non avrà fine la vita e la fascinazione di Praga! E io forse vi ritornerò. Andrò al cabaret Viola a recitare i miei versi e porterò i miei nipoti, i miei figli, le donne che ho amato. I miei genitori risorti. Tutti i miei morti. E non ci daremo per vinti. Fatti forza, Praga: resisti.» Era il settantatré.

Testo da collegarsi al volume -uscito un paio d’anni fa- l’«Ora di Praga», contenente altre pagine di poesie e corrispondenze intrattenute dallo slavista con amici del luogo. Su tutte la conclusione di una lettera a firma Zora Jiráková riguardante l’annoso dilemma circa la data della fine dell’oppressione: «scrivo dalla città che adori per comunicarti che Praga, in questo sediziosissimo tempo, pullula di gójlemess. Non c’è più un castagno, un cortile né un tetto né un ponte che non portino l’impronta di minacce argillose. E per un golem che si dissolve cento altri ne spuntano, mentre si vanno spegnendo di crepacuore i migliori di noi. Però deve esserci redenzione. Nulla si tiene quaggiù che non sdruccioli o cada. Ma quando?»  (Già. Quando? Risposta: una quindicina d’anni dopo la suddetta missiva. Ancora, erano i settanta). Andiamo avanti.

A Praga Philip Roth trascina Nathan Zuckerman ficcandolo nella fervente scena letteraria cittadina ostacolata dall’ombrello sovietico in un fiorire di pedinamenti e impermeabili, occhiali da sole e nomi falsi. Per senso istituzionale cito «L’orgia di Praga» in questo breve e lacunoso elenco benché nella norma Roth non mi faccia impazzire e il volume non rappresenti una eccezione. Diverso -decisamente più virato al lungo reportage- i «Ritratti di Praga» di John Banville, del quale mi è sempre ronzato in testa il brano in cui  l’autore compie l’entusiasmante scoperta che la civiltà e la raffinatezza parrebbero essere reperibili anche oltre-cortina: «era [il professore praghese] un tipo alto e magro, con capelli corti e smunti. Un tipo nordico che mai ci saremo aspettati di trovare così a Est. Strinse la mano a ciascuno di noi in quel modo serio, affettato, tipico dell’Europa Centrale che sembra un commiato più che una presentazione. E un sorriso malinconico.  Prese la bottiglia con delicatezza, quasi con tatto. Un grado di riconoscenza assai calibrato; un gesto raffinato, ecco l’espressione più corretta. Non avevo mai conosciuto nessuno cui tanto si addicesse quell’aggettivo.» Notevole.

I celebri esterni cittadini filtrano invece poco dal breve testo di Brecht «Schweyk im zweiten Weltkrieg», nel quale lo scrittore ripesca il celebre Švejk per catapultarlo nella seconda guerra mondiale. Di fatto tutta la pièce si svolge in osterie praghesi fumose e grondanti birra dunque mi limiterò a sottolineare quanto da subito mi sia trovato in sintonia con l’opera e i fondali proposti, ad oggi stereotipi come Piazza Venceslao e il Pražský hrad, ma certo più distensivi e personali.

Dimensione invece nazionale e meno cittadina ha il «Gottland» di Mariusz Szczygieł, nel quale la storia ceca viene ricostruita passando da politici come Dubček e Husák a tizi come Tomáš Baťa, quello delle scarpe.

Ora, nella norma i giornalisti che vogliono fare i brillanti risultano gradevoli come una seggiolata sulla schiena, ma Gianni Clerici ha il dono raro di una onesta leggerezza e la capacità di non apparire artefatto quanto alcuni colleghi; tra l’altro il suo «Rovescio di Praga» non può che spiccare per l’eccentricità della trama (un cronista sportivo si intrufola in Cecoslovacchia per assistere a un match di Coppa Davis). Da Clerici a Borges il passo è naturalmente breve: Praga (e nello specifico la Zeltnergasse, o meglio Celetná) spunta anche dalle «Finzioni» in un fascinosissimo cammeo, la vicenda del boemo Jaromir Hladík destato una mattina da un frastuono; sono le blindate avanguardie del Terzo Reich appena giunte in città.

Vista la mole di materiale, di Kundera faccio prima a non parlare, così come dei «Diari di Praga» di Abel Posse. Stessa sorte tuttavia diverse motivazioni. Ovvero se Kundera meriterebbe troppo spazio e incisi*, Posse non l’ho letto però mi incuriosisce assai. E d’altronde come non potrebbe far drizzare le antenne un testo con un lancio del genere: «nel 1966 Ernesto Che Guevara lascia la politica attiva e, con un gruppo di fedelissimi, trascorre sei mesi in clandestinità nella Praga stalinista per preparare l’attacco finale contro il Capitalismo»? Prometto di sopperire alla lacuna.

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Note

* Unica capatina nel settore per menzionare «Alexander Dubček e Jan Palach, protagonisti della storia europea» (a cura di F. Leonini) e «Era sbocciata la libertà? A quarant’anni dalla Primavera di Praga» (a cura di F. Guida), rispettivamente per Rubbettino e Carocci, di recente pubblicazione e stupendamente ricchi.
* Strappo alla regola solo per l’aneddoto del merlo che riconquista l’Europa Centrale nel Kniha smíchu a zapomnění: quantomeno singolare.

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