SERBIA: Giù le mani dall'autonomia della Vojvodina

NOVI SAD – Il 13 aprile scorso, davanti al Parlamento della regione autonoma della Vojvodina a Novi Sad, si è tenuto l’incontro “Stop alla frantumazione della Serbia” (Stop razbijanju Srbije), ufficialmente organizzato da alcune associazioni studentesche e sindacali. Pochi giorni prima il premier della Voivodina Bojan Pajtić, che appartiene al Partito Democratico (DS, lo stesso dell’ex Presidente della Repubblica Boris Tadić), aveva annunciato che il Parlamento della Vojvodina avrebbe presto discusso e varato la “Dichiarazione per la difesa dei diritti costituzionali e legali della Voivodina”, un documento in cui si sottolineano le prerogative di cui gode la regione e che la Costituzione serba sancisce: il diritto alla diversità e alla plurietnicità, la decentralizzazione del potere, l’autonomia nel varare leggi di interesse regionale.

La Vojvodina ha ottenuto l’autonomia già ai tempi della Jugoslavia grazie alla Costituzione del 1974. Negli anni Novanta, Slobodan Milošević tolse alla regione tutti i privilegi giurisdizionali e solo nel 2001, con la cosiddetta “Legge Omnibus”, la Voivodina ha riacquistato la propria autonomia. Bojan Pajtić ha giustificato la volontà di far votare la Dichiarazione dal Parlamento di Novi Sad perché “la maggior parte dei cittadini capisce perfettamente che i diritti che la Costituzione prevede non vengono rispettati“.

Alla manifestazione di protesta del 13 aprile hanno preso parte anche politici di destra – fra i quali ricordiamo l’ex sindaco di Novi Sad Maja Gojković, parlamentare nelle file del Partito Progressista (SNS), alla cui guida c’è ora l’astro nascente della politica serba, il vice-premier e Ministro della Difesa Aleksandar Vučić (l’SNS è nato nel 2008 a seguito dello strappo avvenuto all’interno del Partito Radicale fra l’attuale Presidente della Repubblica serba Tomislav Nikolić e il presidente e ideologo del Partito, Vojislav Šešelj, che si trova in carcere all’Aia). Il meeting del 13 aprile è stato un vero flop: da Belgrado e dal resto della Serbia sono arrivati 17 autobus, a spese dello Stato (i Progressisti hanno caldamente voluto la manifestazione insieme agli alleati di governo, i Socialisti del premier Ivica Dačić e il Partito Democratico Serbo di Vojislav Koštunica). I manifesti che tappezzavano la città nei giorni precedenti al 13 aprile annunciavano una vera invasione: in realtà, i dimostranti erano molto pochi e al termine dei comizi la città si è svuotata in meno di un’ora. La retorica utilizzata nei 15 interventi che si sono succeduti durante il meeting ricorda quella di fine anni Novanta, quando politici e giovani armati – sostenitori di Milošević – si riversavano dalla capitale serba a Novi Sad e attraversavano il centro cittadino reclamando a gran voce la revoca dell’autonomia voivogiana e la “serbizzazione“ della regione, in cui ancora oggi vivono più di 25 nazionalità.

Il giornalista Mihal Ramač ha giustamente sostenuto che il 13 aprile scorso su Novi Sad aleggiava di nuovo lo spirito di Milošević. Rispetto al passato, però, né i cittadini di Novi Sad né i giornalisti e gli analisti che seguivano il raduno hanno preso sul serio i manifestanti, innanzitutto perché mancavano i principali esponenti dei partiti che in Voivodina sono all’opposizione (e che governano a livello nazionale) a cominciare dallo stesso Vučić. Il vice-premier, che aspira a prendere il posto dell’attuale primo ministro Ivica Dačić adesso che è stato raggiunto il tanto sofferto accordo con Priština/Prishtina, sapeva che la propria presenza a Novi Sad avrebbe fatto infuriare i rappresentanti della diplomazia europea, che a spada tratta difendono l’autonomia della Vojvodina. Vučić e l’SNS hanno abbracciato le idee filo-europeiste che fino a qualche tempo fa erano prerogativa della sinistra e per questo alla manifestazione di Novi Sad hanno preferito non apparire e mandare i proprio colonnelli.

Il raduno, in realtà, non voleva essere soltanto una riesumazione a fini populistici della retorica degli anni Novanta, ma anche un modo per richiamare il più possibile l’attenzione da parte di tutta l’opinione pubblica sull’operato del governo della Vojvodina. Perché infatti Bojan Pajtić ha proposto soltanto adesso che il Parlamento voti la Dichiarazione, quando già nel luglio del 2012 il Tribunale Costituzionale serbo aveva riaffermato le prerogative fondamentali e la sostanza dell’autonomia della Vojvodina (la Voivodina ha un capoluogo, Novi Sad, è divisa in 3 aree geografiche – Srem, Bačka e Banato – e può finanziare l’Accademia voivogiana dell’arte e delle scienze)? Perché Pajtić ha reso pubblico il testo della Dichiarazione senza prima consultare i partiti che fanno parte della coalizione di governo (l’SVM, l’Alleanza degli Ungheresi Voivogiani e, soprattutto, l’LSV, la Lega Socialdemocratica della Voivodina, guidata dal carismatico Nenad Čanak)? Perché lo stesso Pajtić ha indetto la seduta parlamentare per il 10 aprile – seduta poi rimandata a data da destinarsi a causa delle proteste – quando la convocazione del Parlamento voivogiano è una prerogativa esclusiva del Presidente della Voivodina, Istvan Pastor?

Il problema è che il Partito Democratico, che ha saldamente in mano il potere in Voivodina, dal 2012 non governa più a livello nazionale. Da quando è vicepremier, Vučić ha dato vita a una vera e propria lotta contro la corruzione, che a livello popolare gode di grande consenso ed è anche indispensabile per far fuori i principali “tycoon”, al fine di rafforzare il governo in un momento molto delicato del cammino della Serbia verso l’UE. Non è un caso che sia stato proprio Vučić a volere l’arresto di Miroslav Mirković, proprietario della Delta Holding, che controlla banche, compagnie di assicurazione e indirettamente alcuni giornali, e che avrebbe potuto scatenare guerre mediatiche contro i rappresentanti delle istituzioni nel momento in cui questi a Bruxelles erano impegnati a raggiungere un accordo col Presidente kosovaro Hashim Thaçi. In ogni inchiesta contro la corruzione, però, spunta il nome di qualche membro del Partito Democratico.

Sempre Mihal Ramač ricorda sulle pagine del quotidiano „Danas” che i Democratici, al potere a Belgrado dal 2004 al 2012, “hanno cambiato a proprio piacimento i componenti e i dirigenti dei consigli di amministrazione, hanno raccomandato persone incompetenti ma utili alle logiche di partito, hanno riciclato soldi sporchi nella costruzione di canali di campagna e di boulevard cittadini…”. Quando il DS governava anche a livello nazionale, insomma, “il potere repubblicano proteggeva quello regionale, e quello regionale proteggeva a sua volta quello nazionale”. Per anni, ricorda ancora Ramač, c’è stato un patto di non aggressione fra Democratici e Radicali, la maggior parte dei quali ha seguito Nikolić ed è trasmigrata nel Partito Progressista. Sebbene i Democratici sapessero dei misfatti commessi dai radicali soprattutto durante il regime di Milošević, hanno lasciato in libertà i principali criminali, in certi casi li hanno addirittura protetti. Vučić, approfittando della grande popolarità di cui gode in questo momento, ha violato questo patto e vorrebbe distruggere anche l’ultima roccaforte dei Democratici, il governo della Vojvodina appunto.

Pajtić ha risposto a questo tentativo con la Dichiarazione, utile per riaffermare un’autonomia che stenta ad affermarsi ma anche per distogliere l’opinione pubblica dai numerosi scandali che coinvolgono il suo partito e la sua amministrazione. Lo scopo finale del meeting del 13 aprile, quello di arrivare al più presto allo scioglimento del Parlamento e a elezioni regionali anticipate, non è stato però raggiunto: in Voivodina, il Partito Democratico e i suoi alleati godono ancora e comunque di un fortissimo appoggio popolare, soprattutto perché i cittadini non dimenticano che gli attuali membri del Partito Progressista appoggiarono Milošević e la politica accentratrice degli anni Novanta.

Foto da Infoserbia (Subotica)

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