L’Inghilterra è Europa? Cameron e il referendum sull’Unione

L’Inghilterra e l’Europa, una relazione travagliata, fatta di cesure e appartenenze, di distanza e partecipazione. Un rapporto complicato da quando l’Europa è diventata, in buona misura, Unione Europea. Ed è in questa accezione che si può, provocatoriamente, chiedere: l’Inghilterra è Europa? Domanda che siamo abituati a porci per la Turchia, ma che ha forse una sua concretezza anche per le questioni d’oltremanica: la crisi dell’euro (moneta che Londra non ha mai adottato), l’unione bancaria, la riapertura dei trattati e una progressione verso l’unità politica del vecchio continente, sono faccende che in Gran Bretagna interessano poco. Insomma, quella europea è una questione inglese?

David Cameron, primo ministro britannico, ha dichiarato l’intenzione di affidare a un referendum, da farsi nel 2017, i destini dell’Isola. I cittadini britannici saranno chiamati a scegliere: dentro o fuori l’Europa, una volta per tutte. Cameron si sintonizza così sugli umori dell’elettorato e mette all’angolo il partito laburista, al suo interno diviso tra chi vorrebbe più decisamente partecipare all’unità europea e chi ritiene che sia invece prematuro. L’impressione è quindi che quella del referendum sia una boutade utile a risalire nei sondaggi. Ma una certa estraneità a questa Europa è realmente percepita oltremanica, specie dall’elettorato inglese rispetto a quello, tuttavia meno cospicuo, scozzese o nordirlandese.

L’Europa in senso moderno nasce, secondo alcuni, in epoca carolingia. A quel periodo e alle successive vicende che attraversarono l’alto e il basso Medioevo taluni ascrivono il fondamento della nostra idea di Europa. Non a caso Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Europa unita, definì Carlo Magno “padre dell’Europa”. Una Europa, quella di Carlo, che andava dall’attuale Catalogna al fiume Oder. Una Europa “franco-tedesca”, potremmo dire con buona dose di approssimazione. Ma che quell’Europa, specie quella post-carolingia, con le sue diete imperiali, il suo consiglio dei principi, il collegio dei grandi elettori e il sub-collegio, e ancora circoli e regole “costituzionali” cui tutti (compreso l’imperatore, che era eletto) dovevano sottostare, ricordi la nostra Unione Europea è forse più di una suggestione. E a quell’Europa “imperiale” l’Inghilterra, emersa dalle nebbie del IX° secolo, guardò sempre con distanza e sospetto anche se i suoi sovrani erano, fin dall’epoca dei Plantageneti, di origine continentale. Un legame strettissimo, quello tra Europa e Inghilterra, eppure non saldo.

In epoca recente, dopo il sovrumano sforzo della Seconda guerra mondiale, i britannici hanno adottato nei confronti del continente la politica del wait and see, del guarda e aspetta. Londra aderì alla Cee solo nel 1972, quindici anni dopo la sua nascita, ed è entrata nell’Unione Europea mantenendo una serie di opt-out, che le consentono di smarcarsi da alcune decisioni di Bruxelles oltre a mantenere, cosa non secondaria, la propria moneta. Nel 2003 Tony Blair cercò di ridurre le distanze tra Londra e Bruxelles, e pensò addirittura all’adozione dell’euro come moneta, facendo della Gran Bretagna il terzo ingranaggio del motore europeo, accanto a quello franco-tedesco. Oggi quella Gran Bretagna europea sembra lontana anni luce. La domanda che anche l’Economist si fa è: se Londra non sta in Europa, dove sta?

Sul continente l’atteggiamento britannico è visto con crescente irritazione: l’impressione è che in questi anni la Gran Bretagna si sia “servita” dell’Unione Europea, cercando di condizionarne il corso in chiave anti-federalista. L’atteggiamento, secondo l’editorialista del Corriere della Sera, Sergio Romano, avrebbe pagato: Londra, mantenendo i suoi privilegi finanziari (la famosa City è la più importante piazza finanziaria al di qua dell’Atlantico e vi hanno sede numerose agenzie di rating) ha potuto allo stesso tempo rallentare il percorso di unità politica. Se ciò fosse vero un europeista avrebbe solo da esultare se il popolo britannico decidesse di voltare le spalle al vecchio continente. Tuttavia l’uscita di Londra dall’Unione sarebbe forse devastante per la tenuta del progetto, e offrirebbe un utile precedente ai paesi euroscettici e ai governi populisti che, in momenti di crisi, potrebbero usare l’antieuropeismo come chiave di volta del consenso elettorale.

Cameron, dal canto suo, non sembra essere l’uomo dello strappo, la caratura politica non è quella dello statista che mette sulle proprie spalle i destini della nazione. Insomma, non è Churchill. Cameron sembra solo voler sfruttare il malcontento a proprio vantaggio, intercettando il voto degli ultraconservatori vicini allo Ukip, partito nazionalista guidato da Nigel Farage. Il 2017 non è così prossimo e nel frattempo le sorti di una Europa impelagata in una crisi non solo economica potrebbero cambiare, e Londra potrebbe rinegoziare la propria posizione rendendo inutile un referendum. Di mezzo, infine, c’è il referendum per l’indipendenza della Scozia, che si dovrebbe tenere nel 2014. E nel caso di una indipendenza scozzese, assai ipotetica, con una Edimburgo che cercherebbe di mantenere i link con Bruxelles, quale sarebbe l’atteggiamento di una piccola e isolata Inghilterra? Senza contare come un’abbandono dell’UE da parte della Gran Bretagna potrebbe aprire scenari

Infine, nella crisi europea, siamo certi che lo strappo di Londra faccia il bene dell’Unione? Siamo sicuri che, senza Londra, andremmo più speditamente verso l’unità politica? La Gran Bretagna, con la sua cultura e la sua storia politica, potrebbe essere d’aiuto nel trovare una soluzione alla crisi europea che, lo ricordiamo, non è solo economica ma filosofica, politica, di idee. Il motto europeo è “uniti nella diversità”, ebbene senza la diversità inglese, senza il suo ruolo di bilanciamento dell’egemonia tedesca, senza la sua secolare storia democratica e liberale, forse l’Europa sarebbe più povera.

 

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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Un commento

  1. Articolo interessante . Vivo in Inghilterra da quasi 50 anni. L`Europa ci ha danneggiato al di la` di ogni comprensione. Ci sta` annientando, giorno dopo giorno, e non e` un`esagerazione. Sembra di vivere su un pianeta che chiamerei inferno.

    Cordialmente, Michele castorina

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