I Balcani tra voglia di jugosfera e tensioni irrisolte. Mentre l’Europa sta a guardare

“Quel giorno chiederemo all’Inferno: ne hai avuto abbastanza? E l’Inferno risponderà: ce n’è ancora?”

(Selimovic, Il derviscio e la morte)

In circa dieci anni la Jugoslavia che fu di Tito preparò la propria dissoluzione. Come scrisse Bettiza, l’89 jugoslavo iniziò con largo anticipo con i solenni funerali dello Stari, del “vecchio padre” della patria. In un periodo pressoché doppio, dai primi anni novanta ad oggi, non ha ancora metabolizzato la propria disunità. E come sempre accade quando non si rielabora un lutto, il passato riaffiora e il dolore si ripresenta.

E’ successo recentemente con l’assoluzione dei generali croati Gotovina e Markac, responsabili di quell’operazione “Tempesta” (Oluja) che nell’estate del 1995 ripulì la regione della Krajina dalla presenza (secolare) dei serbi. L’esultanza “patriottica” di Zagabria e l’irritazione di Belgrado dicono quanto i nervi rimangono scoperti, come se i Balcani post-jugoslavi proprio non riuscissero a divenire una area “normale” del mondo. Quasi riproponendosi – mutatis mutandis – quell’Europa selvaggia di cui parlavano i (pochi) viaggiatori ottocenteschi. O, per dirla con Matvejevic, rimanendo uno spazio dove la geografia non la smette di provocare la storia.

Oggi la situazione è delicata: perché, baconianamente, sono presenti sia una pars construens che una pars destruens. La prima ci dice che, nonostante tutto, l’area post-jugoslava tenta di ricostituire fili comuni. Ad esempio nel trasporto aereo, constatata la necessità di fare massa critica regionale dato che i minuscoli vettori aerei micronazionali (Jat compresa) non hanno più senso al tempo della globalizzazione dei voli. O nel calcio, con l’idea di creare una Balkanska Liga che rifaccia giocare insieme squadre che non si sono più viste dal campionato 1990/91, l’ultimo prima della dissoluzione. Non è jugonostalgia, ma voglia (o necessità) di “jugosfera”, cioè di recupero delle relazioni tra i paesi ex-jugoslavi. Soprattutto relazioni di business in un momento in cui il capitalismo mondiale non crede più al “piccolo è bello” di Schumacher.

Ma vi sono anche segnali di aria nuova nelle politiche interne di vari paesi, come in Serbia, in Macedonia, nella stessa Bosnia, dove il popolare membro croato della presidenza tripartita Komsic ha abbandonato il suo partito (socialdemocratico) perché troppo inclinato in senso etno-nazionalistico. Segnali di maturazione politica – finalmente – dopo gli incendi degli anni novanta e le impasse degli anni seguenti. Anche se il tutto rimane fragile: Kosovo, Bosnia e Macedonia rappresentano, per differenti motivi, tre faglie ancora a rischio sismico, tre tòpoi depositari nell’area di problemi non risolti, o mal risolti.

Ma paradossalmente la pars destruens arriva oggi in buona parte da fuori. Veicolata dalla recessione e dalla situazione dell’Unione Europea. Circa la prima si sa che la crisi (anche demografica!) sta annichilendo le economie di tutti i paesi ex-jugoslavi, particolarmente di quelli più sviluppati, Slovenia in primis, che rischia addirittura di essere il primo paese post-comunista a dover chiedere un prestito all’Europa per evitare il default. Economico e sociale.

E poi c’è l’Europa. O meglio, non c’è l’Europa. Come è stato recentemente scritto su Limes, oggi il ruolo dell’Europa dei 27 appare debolissimo. Dopo aver ispirato con sicumera ai riottosi Balcani la saggezza dell’integrazione comunitaria e dello sviluppo economico, l’Europa si trova smarrita, oppressa dalla recessione e divisa sulle soluzioni. Come titola un libro appena apparso di Bordignon (il Mulino), è una “casa comune in fiamme”, a rischio cioè di implosione. Politica, non solo monetaria. Allora il gioco è capovolto: mentre i Balcani cercano di essere “meno balcanici” e rissosi, l’Europa litiga e si balcanizza. Anzi, la Grecia al collasso e la Romania di Basescu in deficit democratico potrebbero essere i primi paesi in controtendenza: dall’Europa ai Balcani.

Tra depressione economica, assenza dell’Europa e problemi endogeni di origine “jugoslava” diventa un esercizio difficile prevedere con ottimismo il cammino dell’area balcanica nei prossimi anni. Perché rischiano di passare dai fantasmi del passato a quelli del futuro.

* Vittorio Filippi insegna sociologia all’università Iusve di Venezia. E’ giornalista, collabora con molte testate che si occupano di Balcani, tra cui Osservatorio Balcani e Caucaso e East Journal.

Chi è Vittorio Filippi

Sociologo, docente Università Ca’Foscari e Università di Verona, si occupa di ricerca sociale, soprattutto nel campo della famiglia, della demografia, dei consumi. Collabora nel campo delle ricerche territoriali con la SWG di Trieste, è consulente di Unindustria Treviso e di Confcommercio. Insegna sociologia all’Università di Venezia e di Verona ed all’ISRE di Mestre. E’ autore di pubblicazioni e saggi sulla sociologia della famiglia e dei consumi.

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Un commento

  1. La jugoslavia era una grande nazione unita prima della mano messa degli stati uniti e dell’europa. Non ci diamo consigli di come si sono divisi poiche la verità è un libro aperto. L’europa ha solo illusioni, dovra immitare la vecchia Yugo e migliorare certe regole .

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