Un amore freddo. Gli intellettuali tedeschi e l’Europa

RUBRICHE: Opinioni & eresie

Fallito il progetto costituzionale, richiesto dagli intellettuali, redatto dai burocrati e bocciato dai cittadini europei, in questi momenti di crisi quello che rimane è la speranza di poter realizzare concretamente una sfera pubblica europea. Ovvero, realizzare un luogo di incontro e di proposta, anche di critica, per capire se la democrazia (e non il decisionismo) è qualcosa di praticabile anche al di fuori dello Stato-nazione. Certo, la differenza linguistica rende più difficile il dialogo e lo scambio. Eppure, appiattirsi su di una lingua “egemone” comune, anche se più semplice e largamente conosciuta, rappresenterebbe già di per sé il fallimento dell’idea di Europa come unità nella diversità e ce la farebbe sentire sempre “straniera”. Ci affidiamo quindi alla pratica della traduzione (che, come si sa, rappresenta necessariamente anche una forma di tradimento e rielaborazione), ma che ci fa intuire la concreta possibilità di incontrarsi e capirsi su dei punti comuni, nonostante e forse grazie, le proprie differenze linguistiche e culturali. Possiamo “pensare europeo” e discutere del nostro futuro insieme?

di Lorenza La Spada

Un amore freddo

Un giorno ci chiederemo: dov’erano finiti gli intellettuali mentre l’Europa cadeva a pezzi?

Forse arriverà un momento in cui i critici di domani chiameranno per nome i colpevoli di oggi; faranno l’elenco di quelli a cui l’Europa era del tutto indifferente, prima che cadesse in rovina; punteranno il dito contro i grandi economisti che hanno giocato in borsa all'”affondo degli Stati”; passeranno in rassegna, con postumo sgomento, tutti i politici che facevano fronte contro l’Europa; e forse arriverà un momento, proprio alla fine, prima dello spegnersi dell’ultima luce, in cui il discorso si rivolgerà anche ad una strana specie, gli intellettuali. Dove erano finiti quanto l’Europa stava soffocando? Qualcuno se lo ricorda? Perché hanno combattuto nascosti tra i cespugli, come se fossero intimoriti? “Europa? Nooo, occorre leggere i segnali nel mio nuovo libro.” Perché in generale non ci viene in mente niente sull’Europa a parte il commercio e se anche qualcosa ci viene in mente si tratta di frasi standard che hanno la grazia stilistica di un volantino – cartelle di testo senza vita date alla luce tra enormi dolori grammaticali e sepolte per l’eternità nella cripta oscura delle antologie?

No, l’Europa non ha prodotto alcuna passione tra gli intellettuali, nessuna splendente fantasia politica, soltanto una flemma di divagazioni di mediocre livello. Perché l’Europa “ce l’avevamo per certa”, era la vecchia zia con cui si prende il caffè, verso la quale si usa quella gentilezza, perché tanto si sa che fra cento anni sarà ancora seduta lì. L’Europa era un’abitudine e sulle cose abitudinarie si scrive male oppure per niente. Quelli per cui non era così si possono contare sulle dita delle mani: Jürgen Habermas, Klaus Harpprecht, Robert Menasse, Hauke Brunkhorst o Ulrich Beck. Anche Hans Magnus Enzensberger, pure se nel senso opposto […].

Perché è così? Perché l’Europa è la parente povera dell’etile intellettuale? Perché, scrive il sociologo Ulrich Beck nella rivista Cicero, queste elite dopo la caduta del muro nel 1989 si sono ri-nazionalizzate, perché – dopo una lunga attesa – volevano soprattutto riscoprire un Paese così a lungo diviso. A una prima occhiata Beck ha ragione. Molti poeti e pensatori si sono assolati alla luce dorata e nostalgica della sovranità riconquistata e si sono adoperati per rafforzare la coscienza nazionale. Günter Grass non potrà mai sentirsi accusato dai suoi detrattori di essersi preso una pausa e aver fatto suonare le sue trombe per l’Europa. Altri hanno sepolto con Arnulf Baring la vecchia BDR e hanno issato la bandiera della “Repubblica Berlinese”, sognavano uno stretto ricongiungimento di arte e potere, oppure si battevano per Berlino capitale come per il perduto Graal. Altri ancora con Martin Walser hanno estratto la carta nazionale tedesca e hanno chiesto spudoratamente di tirare una croce “liberatoria” su Auschwitz, e hanno riscoperto con Friedrich Nietzsche i dominatori tedeschi, con Stefan George lo spirito tedesco, con Botho Strauß il tragico tedesco e con Peter Sloterdijk i performers tedeschi.

Anche i giornali che portavano la parolina “europeo” nel sottotitolo, lasciavano in disparte il Continente. Con zelo eroico, ma a tratti comico, hanno combattuto la decadenza liberale, i sessantottini sciattoni e la spazzatura mentale della Repubblica Federale Tedesca. C’è stato allora l’arrivo di un nuovo tabù, ovvero l’economia. Di lei non si doveva discutere con troppa curiosità, perché il capitalismo aveva schiacciato il comunismo, era il vincitore mondiale, aveva ottenuto l’elogio della storia e infine aveva ristabilito le differenze sociali che nell’inferno egalitario della BDR erano state così dolorosamente piallate.

 Il progetto si chiamava “Germania“, non si chiamava “Europa”, perché l’Europa era un farmaco spirituale che ti passava la mutua, un ideale per brav’uomini e un qualcosa di politicamente corretto con cui si potevano scaldare tutti quelli che non si erano ancora scontrati con la dura realtà. A confronto con il panorama nazionale che stava sbocciando, Helmut Kohl era nonostante tutto un vero dialettico: “La Germania è la nostra patria (la terra dei nostri padri), e l’Europa è il nostro futuro.”

 A scanso di equivoci: come sono state faticose le conquiste e le riconciliazioni nazionali dopo l’avvenimento storico sensazionale della caduta del muro, dovranno esserlo anche quelle future e nessuno potrà dire di non aver imparato nulla da quel che è successo. Inoltre, e anche questo va detto, non è solo colpa della polarizzazione neonazionale se il cuore intellettuale non si è scaldato per l’Europa: nella vecchia Repubblica Federale il potere politico aveva un indirizzo preciso, Bonn, e gli intellettuali si immaginavano con una certa fondatezza che i loro argomenti avevano la possibilità di impressionare l’opinione pubblica.

 Ma quale indirizzo ha l’Europa? Bruxelles è come una finzione realistica, una gigantesca scatola nera, uno spazio anecoico, un potere insulare di assorbimento senza il ben che minimo fascino retorico. Bruxelles è un cementificio solitario, e un cementificio scoraggiante. Gli interventi rimangono clamorosamente inefficaci e anche quando si dice che esiste un’opinione pubblica intellettuale europea, per esempio il giornale “Lettre” o il magazine “Perlentauchers“, i temi non hanno mai presa, non trovano ascolto, rimangono nient’altro che un brusio. Quelli che “ah, l’Europa” si infervorano per l’UE, beh, potrebbero anche lamentarsi allo stesso modo per il meteo con il cielo.

 Naturalmente ci si può chiedere: perché gli intellettuali di tutti i Paesi non si sono uniti? Perché non hanno usato la loro innata coscienza facendo pressione sui politici nazionali per far avanzare il progetto europeo a livello sovranazionale? Perché i cosiddetti intellettuali critici non hanno chiesto in nome della democrazia un governo economico europeo e hanno accettato senza resistenze di essere derisi da quelli che fanno la “Realpolitik” come dei pazzerelli? Perché non hanno preso parte alle controversie interne agli studi europei e non le hanno diffuse e rese popolari? Certo, è stato un errore, sarebbe stato necessario farlo. Ma questo genere di iniziative facevano subito nascere un sospetto, che era ben fondato: il sospetto che a Bruxelles si scacciava un male introducendone un altro, che ogni nuovo passo in direzione di un'”unione politica” non fosse portatore di democrazia, ma di burocrazia. In breve: che ogni “approfondimento” di quel “mostro mite” (la definizione è di H.M. Enzensberger n.d.T.) che è Bruxelles non faccia altro che alimentare la tecnocrazia vorace delle elites funzionali.

 Ed è successo che l’astuzia razionale (del metodo fuzionalista n.d.T.) ha fatto il suo lavoro. Ora tutti parliamo di Europa, la sfera pubblica ne è piena, ogni cittadino in questi giorni fa un’esperienza comune a tutti gli europei e ha piena comprensione della frase banale che tutto è interconnesso. Improvvisamente i media vogliono occuparsi di temi e problemi teorici che fino a ieri erano relegati in una sorta di zoo esotico, e naturalmente la parola “capitalismo” affiora sulla bocca di tutti. “Abbiamo parlato di banche senza timore”, ha detto orgogliosa la signora Merkel, e ora sappiamo che sarebbe stato meglio il contrario.

 Ognuno ha davanti ai propri occhi la colossale debolezza dello Stato-nazione, e tutti se lo sentono: a confronto con le superpotenze economiche ha le dimensioni di un principato da operetta e non ce la farà da solo, ma potrà salvare la pelle solo attraverso l’azione congiunta di tutti gli europei. Perché alle bufere del mondo globalizzato non si sopravvive come portoghesi, francesi o tedeschi, ma solo come cittadini europei.

 Sarà amara, ma la realtà è questa: non è un’improvvisa illuminazione della classe politica, non è il cittadino attivista e non sono certo gli intellettuali con i loro argomenti meditati che stanno facendo la storia, ma il potere del denaro, il potere del debito e la debacle del settore finanziario.

Visto che fino ad ora l’UE si è legittimata attraverso una Output-Legitimation (come dicono i politologi), ovvero attraverso il funzionamento silenzioso delle sue istituzioni, si è intesa la democrazia come l’eliminazione delle interferenze e si è interpretato il silenzio dei cittadini come un consenso schiacciante. Non è più così. Alla fine, scrive il sociologo Hauke Brunkhorst, i politici responsabili dovranno uscire allo scoperto, “dovranno parlare con la gente e non più solo parlare alla gente. Si è alzato il sipario e gli avvenimenti sulla scena sono incerti come non mai.”

Sarebbe un errore se gli intellettuali non si immischiassero nella crisi. Anche se non sono i meglio informati in materia, sarebbero liberi di partecipare con semplici suggerimenti ad un progetto complesso. Come dovrebbe essere l’Europa federale, di cui solo Gerhard Schröder ha fantasticato ad alta voce? Come si dovrebbe rappresentare la “autodeterminazione dei popoli europei”? O una democrazia europea che non avesse a che fare con i parlamenti nazionali? In quale rapporto stanno le democrazie nazionali con una costituzione europea? In una parola: che forma ha la sovranità?

 Un’ultima domanda: perché tutto questo? Perché gli intellettuali devono assolutamente litigare e discutere pubblicamente? Chiaro, poeti e pensatori hanno di meglio da fare, non sono esperti in materia e di economia capiscono ben poco. Ma tutto ciò non ha a che fare strettamente con l’economia, ha a che fare con la pluralità e la coscienza per uno spazio politico e culturale nel quale i cittadini non siano travolti dalle furie del capitale. Per questo spazio libero c’è da litigare, e come ha detto qualcuno, è il più alto dovere morale degli intellettuali, perché l’economia è una cosa importante per tutti, ma non ancora così importante.

(fonte: Die Zeit)

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3 commenti

  1. Grazie per la pubblicazione di questo bell’articolo. Una riflessione profonda, che ne genera molte altre. Nel suo piccolo, il Movimento Federalista Europeo – e la galassia di affini associazioni, movimenti e centri studi – stanno cercando di costruire una riflessione teorica e politica, uno spazio aperto di dibattito con le forze politiche ed i cittadini, per capire quale Europa ci serve per uscire dalla crisi e soprattutto quale Europa vogliamo per vincere le appassionanti sfide del futuro.

  2. Bellissimo articolo. E complimenti alla traduttrice, ché belle traduzioni non sono affatto scontate

  3. bellissimo articolo e davvero complimenti alla traduttrice! <3

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