La persecuzione e la rivolta, il Kosovo verso l’indipendenza

L’ostilità serba nei confronti degli albanesi del Kosovo, in maggioranza nella regione dopo lo spopolamento che seguì l’occupazione ottomana, si esacerbò dal secondo dopoguerra in poi. Durante il regime del Maresciallo Tito l’ordinamento federale dello Stato concesse una larga autonomia al Kosovo, autonomia che venne meno nel 1989. La popolazione si trovò così vittima di un regime di tipo coloniale. La reazione albanese fu -per dirla con Pirjevec- una specie di apartheid autoimposto: guidati dal moderato Ibrahim Rugova costituirono una sorta di stato-ombra parallelo, opponendo passività alla violenza serba.

Negli anni Novanta però, accanto al pacifismo di Rugova -che scarsi frutti stava portando- subentrò la violenza dell’Uck, acronimo di Fronte Nazionale di Liberazione, costituito soprattutto da giovani che decisero di usare le armi per costringere l’occidente ad aprire gli occhi sul Kosovo. La guerriglia raggiunse il suo acme nel 1998, a quel punto Madaleine Albright, segretario di Stato americano, decisa a distogliere l’attenzione dalla relation dangereuse tra il Presidente Clinton e Monica Lewinski, prese la palla al balzo. Forzando la mano alla Nato e deligittimando l’Onu -il cui Consiglio di Sicurezza non diede mandato all’azione- gli Stati Uniti bombardarono Belgrado. Era il 1999, e così si chiuse un secolo di barbarie.

E se da un lato il popolo serbo seppe resistere, psicologicamente, umanamente, alle bombe che lo colpivano (e che invece avrebbero dovuto colpire Milosevic, che più non godeva del pieno appoggio dei suoi concittadini), dall’altro mostrò il suo volto più feroce. Sentendosi vittima di un complotto internazionale, esso accettò che il regime compiesse in Kosovo una sorta di “soluzione finale“: la totale espulsione e persecuzione degli albanesi dal Kosovo.

La minaccia dell’invasione via terra fece cedere Milosevic che negoziò la cessione del Kosovo al controllo delle truppe internazionali della Kfor. A  spodestarlo definitivamente fu però l’azione congiunta di polizia segreta ed esercito: Milosevic aveva ridotto la Serbia a paria internazionale, il Paese schiacciato dalle sanzioni non ne poteva più. Col pretesto di un broglio elettorale, nel 2000, Milosevic venne arrestato su mandato del nuovo premier, Zoran Djindjic e consegnato al Tribunale dell’Aja. Era il 28 giugno del 2000.

Ancora il 28 giugno, giorno della celebre battaglia della Piana dei Merli (Kosovo Polje) in cui Lazan Hrebeljanovic combatté, nel 1389, le truppe turche del sultano Murad I, uscendone sconfitto. Il 28 giugno è il giorno di San Vito, lo stesso in cui Milosevic fece la celebre dichiarazione “nessuno vi potrà picchiare ancora” rivolgendosi ai serbi del Kosovo che, nel 1987, lamentavano di essere oggetto di discriminazione, accendendo così la miccia del nazionalismo. Ancora una volta la Serbia ha visto la sua storia segnata dal Kosovo: da sempre luogo delle ceneri da cui ricostruire l’identità dopo la catastrofe.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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