di Matteo Zola
L’esportazione di idrocarburi è il settore chiave della geopolitica russa ma ancora molti sono i problemi, il pragmatismo dell’attuale amministrazione del Cremlino intende risolverli senza troppo badare al sottile, puntando al controllo delle repubbliche ex-sovietiche anche con malcelati ricatti energetici limitando l’espansione della Nato in un’area che è ritenuta esclusiva sfera d’influenza di Mosca.
Le metà delle entrate complessive del bilancio statale russo deriva dal comparto del petrolio e del gas. Le forniture di idrocarburi all’estero rappresentano da sole ben il 60% delle esportazioni. La Russia è dunque il soggetto geopolitico più dinamico e rilevante nella sfera delle forniture energetiche ed è evidente che non può rinunciare ad assicurarsi le migliori condizioni e le rotte più vantaggiose per il trasporto di idrocarburi. La ridefinizione geopolitica dell’area ex-sovietica è tanto più importante poichè buona parte dei giacimenti e delle condutture principali è sita al di fuori dei confini russi, occorre dunque controllare più o meno direttamente i Paesi limitrofi.
Vediamo dunque quali sono le rotte di idrocarburi principali russe, quali quelle antagoniste e quali le alternative, e che Paesi sono coinvolti e in che modo.
Anzitutto le repubbliche ex-sovietiche hanno ereditato una rete di condotte inadeguata a sostenere grandi volumi di esportazione. La Russia si è dunque vista costretta a finanziare l’ammodernamento delle pipelines, di sua proprietà, in Ucraina, in Bielorussia, nel Baltico, rifornendo quegli stessi Paesi a prezzi molto bassi. Il potere contrattuale più forte era dunque nelle mani di quegli Stati che, pur grandemente impoveriti, potevano controllare il transito del gas e del petrolio russo facendo pagare a Mosca pesanti tasse di transito.
Allo stesso tempo però le ex-repubbliche sovietiche si sono trovate a dipendere dalle condotte russe e ciò ha reso difficile un loro affrancamento dalla tutela russa. A caro prezzo infatti la Georgia ha tentato di entrare nella Nato per liberarsi dalla soffocante influenza russa (una guerra, la cui origine è ancora controversa) e una situazione di conflitto è stata prossima a verificarsi anche in Ucraina, mentre il Kirghizistan ha deciso, nel febbraio 2009, di chiudere la base americana presente sul suo territorio in cambio di molti milioni di dollari utili a saldare il debito estero del Paese, invero quasi tutto nei confronti della Russia.
La Russia, dunque, deve quasi il 50% delle sue entrate annuali complessive al gas. Questo la rende un soggetto forte e debole allo stesso tempo, poiché invece di imporre la sua politica energetica all’Europa (come di fatto avviene) potrebbe subirla. Ma l’Europa è divisa e Italia, Germania e Francia fanno affari con Gazprom, il colosso energetico statale russo. I Paesi che si mettono di mezzo vengono aggirati o presi “per freddo”. La Polonia, ad esempio, è stata tagliata fuori dalle rotte delle nuove pipelines poiché politicamente (e storicamente) avversa al Cremlino. Il gasdotto North Stream aggira Paesi Baltici e Polonia per arrivare in Germania. Questa condizione di isolamento energetico è durata per tutto il ventennio succesivo alla caduta del Muro e si è acuita con la politica antirussa dei gemelli Kaczynski. Solo la morte, in un incidente aereo a Smolensk, del presidente della repubblica Kaczynski ha inaugurato un nuovo corso di relazioni, anche energetiche, tra Polonia e Russia.
L’Ucraina, che con la rivoluzione arancione ha cercato di affrancarsi dall’influenza russa tentando la via dell’Unione Europea e della Nato, è stata accerchiata in una crisi economica prodotta dalla Russia, principale partner commerciale di Kiev, che ha chiuso i suoi mercati alle merci ucraine. Inoltre sono stati chiusi i rubinetti del gas verso l’Ucraina e si è cercato di destabilizzare il Paese con la rivendicazione russa della Crimea. Il governo arancione, chiuso nella morsa russa, non ha retto e una “restaurazione” filorussa è in corso nel Paese.
Polonia, Ucraina, Georgia, Paesi baltici. Ma non solo: anche Francia, Germania e soprattutto Italia. La strategia energetica russa punta sul divide et impera blandendo i governi degli Stati europei più forti in modo da spaccare, di fatto, la fragilissima unità europea e rendere il vecchio continente un suo “vassallo” energetico.
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