AZERBAIJAN: L’oleodotto non alimenta la democrazia

 

Da quando l’Azerbaijan ha riconquistato l’indipendenza, per la prima volta i cittadini azeri che studiano all’estero hanno manifestato con picchetti davanti alla loro ambasciata a Washington e davanti alla rappresentanza diplomatica dell’Azerbaijan presso le Nazioni Unite, a New York. Anche se non si è trattato di grandi folle, questo è stato un evento notevole per l’Azerbaijan, piccolo paese ma ricco di petrolio, le cui risorse sono state motivo di unità tra la lobby energetica e gli interessi dell’élite al potere.

La reazione degli studenti mostra l’importanza di un recente sviluppo emerso nella costruzione delle istituzioni del Paese. A dispetto del dichiarato percorso di integrazione con l’Europa, il 18 di dicembre la seduta congiunta delle commissioni parlamentari ha infatti approvato la proposta del partito di governo YAP (Nuovo partito azero) di referendum per un emendamento costituzionale che cancellerebbe l’attuale restrizione a due mandati della carica presidenziale, oltre a restrizioni della libertà individuale in nome della sicurezza nazionale, ovvero la possibilità “senza obbligo di notifica” di filmare, fotografare e schedare le persone. I leader dei principali partiti di opposizione e gli attivisti per i diritti umani si sono appellati alla Corte costituzionale perché non approvi la proposta referendaria, laddove questa proponga emendamenti alla costituzione in contrasto con il diritto internazionale. Con una mossa abbastanza prevedibile, però, il 24 dicembre scorso la Corte costituzionale ha approvato la bozza del referendum “Sugli emendamenti e cambiamenti alla Costituzione della Repubblica azera”. L’approvazione è stata seguita il 26 dicembre dalla decisione del parlamento di fissare la data del referendum per il 18 di marzo.

Pochi si aspettavano che la leadership azera, nel suo percorso di integrazione con l’Occidente, avrebbe osato proporre cambiamenti così sostanziali nella Costituzione, segnali di una tendenza più “orientale” che occidentale. Per la maggioranza era però chiaro che l’élite, il cui status e la cui ricchezza sono direttamente collegate all’attuale presidenza, difficilmente avrebbe rinunciato alla propria posizione a favore di un sistema basato sull’alternanza democratica.
La deriva autoritaria, la democrazia “controllata” alla moda russa, sono direttamente dovute alla posizione geopolitica del Paese, al confine tra il blocco russo-orientale e quello europeo-occidentale. Una posizione delicata analoga a quella della Georgia e che a quest’ultima è costata un’invasione militare. Lo stato azero sembra al riparo da simili pericoli ma ancora una volta la guerra energetica lede lo sviluppo democratico di un Paese europeo. Gli striscioni alle manifestazioni a Washinton e New York, recitavano slogan come  “In nome del padre, del figlio e del santo oleodotto”.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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