GRECIA: L'insostenibile leggerezza del fallimento

Nel giugno dell’anno scorso, su queste pagine, dicevamo fondamentalmente due cose: 1) un default greco sarebbe stato inevitabile, e 2) l’Italia avrebbe fatto bene a guardarsi in casa. Non che fosse più una previsione difficile a quei tempi, ma avevamo ragione.

Nella notte tra lunedì e martedì, dopo 14 ore di discussione, l’Eurogruppo annunciava il via libera all’ennesimo pacchetto di aiuti per la Grecia, 130 miliardi di euro da qui al 2014, col vincolo per il paese ellenico di riportare il suo debito pubblico al 120,5% per il 2020, dall’attuale 163% – obiettivo che trasuda candido ottimismo.

Facciamo un breve riepilogo. Nel maggio 2010, UE e FMI stanziano 110 miliardi per la Grecia, più altri 130 miliardi il 26 ottobre 2011, e poi il bis da 130 miliardi di oggi. A questi va ancora sommato il haircut sui titoli di stato ellenici, pattuito sempre il 20 febbraio 2012 al 53,5%, oltre ad una rinegoziazione della quota rimanente tramite l’emissione di titoli sostitutivi per gli attuali detentori, a interessi che si aggirano tra il 2 e il 4,3% al 2020, di fatto tagliando il valore attuale delle obbligazioni di un buon 75%, che stimiamo a spanne in altri 150 miliardi. Totale: 530 miliardi di euro, e nessuna garanzia che la Grecia sopravviva al 2012. Da questa prospettiva, il default greco in atto, truccato come parziale e pilotato, appare più come una silenziosa messa in mare del cadavere ellenico, avvolto in un lenzuolo per non turbare la stoica calma di chi rimane sulla nave Europa, mentre ci si appresta alla meglio a fronteggiare l’epidemia di peste che dilaga a bordo. Si prende insomma tempo per innalzare quella porta tagliafuoco, quel firewall sufficiente a garantire che l’incendio ateniese si consumi da solo, spegnendosi nelle acque del Mediterraneo.

A farmi optare per questa ipotesi, sono alcune considerazioni: 1) l’oggettiva impossibilità della European Financial Stability Facility (EFSF) prima, e del European Stability Mechanism (ESM) che subentrerà da luglio prossimo, di garantire la salvezza di euro membri in crisi (i 500 miliardi alla Grecia sono noccioline rispetto a quanto occorrerebbe per Italia, Spagna e Portogallo); 2) l’istituzione di un fondo greco ad hoc, controllato a vista dalla troika (FMI, UE, BCE), nel quale verranno versati i fondi rilasciati alla Grecia per un importo pari a un quarto degli interessi dovuti sul debito, e che non potranno essere usati per le spese fiscali correnti, dagli stipendi pubblici alle pensioni, ma solo per il servizio del debito, ovvero per il pagamento degli interessi ai creditori (in larga parte esteri): una misura che appare forte e eccessivamente strumentale anche agli occhi di un cinico realista; 3) la totale mancanza di considerazione per l’ipotesi di una sostanziale cancellazione del debito ellenico. Vediamo di spiegare questi punti nel dettaglio.

La European Financial Stability Facility, più comunemente nota come “Fondo salva-stati”, è nata per il consenso di 17 paesi dell’Unione europea per garantire un supporto ai paesi membri che si trovassero in difficoltà. L’EFSF è sì garantito per 780 miliardi di euro, ma non dispone di fondi propri: esso emette semplicemente titoli obbligazionari, reputati solidi, che vengono scambiati sui mercati primari e secondari di tutto il mondo. Con la liquidità raccolta a fronte, finanzia gli stati bisognosi. Il problema è che, garantita dagli stati europei stessi, nel caso di declassamento di questi ultimi anche l’EFSF aumenta in rischiosità, e può venire declassata a sua volta (cosa che è in effetti avvenuta, da parte di Standard&Poor’s, in seguito ai declassamenti a catena dei paesi europei, dalla Francia in giù, a gennaio), aumentando quindi il costo di finanziamento, e pertanto il costo d’aiuto per i singoli stati. Per questo, il 2 febbraio 2012, 17 paesi hanno siglato l’istituzione di un vero e proprio fondo di 500 miliardi di euro (e per il quale si ipotizza un ulteriore allargamento), denominato European Stability Mechanism (ESM), che dovrebbe servire allo stesso scopo. Il problema è che per i paesi che si avvalessero dell’ESM, l’ESM, per statuto, scavalcherebbe come creditore i privati, ossia avrebbe diritto ad avvalersi per primo dei successivi rimborsi, inducendo paradossalmente ad un acuirsi della difficoltà per il paese in crisi di rastrellare liquidità sui mercati comuni, ed un aumento della speculazione sui credit-default swap nei mercati non regolamentati. Inoltre, molto banalmente, il fondo potrebbe risultare insufficiente, anzi, in casi come quello italiano lo sarebbe senz’altro.

Il secondo punto parla da solo, e dà chiaramente l’idea delle finalità che guidano il piano di salvataggio greco, e l’ordine di importanza dato ai diversi portatori d’interesse: l’esposizione delle banche elleniche al debito del proprio stato ammonta a 60 miliardi di euro, ed è questo un dato che non va dimenticato quando si parla dei creditori, ma è veramente difficile non sottolineare che la Banca centrale europea, Francia e Germania detengono complessivamente altri 152 miliardi, due volte e mezzo tanto (rispettivamente, 65, 53 e 34mld), mentre la percentuale di debito greco detenuta dai paesi occidentali più Fondo monetario internazionale corre veloce verso quota 100% del Pil, financo a sfondarla. Dire che tutelare gli interessi dei creditori significa tutelare i greci stessi può essere vero, ma non comporta affatto che sia stato questo l’ordine di priorità. Inoltre, non è detto che la politica di smantellamento della rete di sicurezza sociale greca, brutale e inefficace prima ancora che in un’ottica etica in quella fredda di rilancio dell’economia reale, non si riveli cura peggiore del malanno.

Infine, terzo punto, è molto difficile ipotizzare che un paese sommerso da un rapporto debito/PIL del 163% possa trovare alcuna via di crescita non dico per ridurre tale debito, ma anche solo per fermare il deficit primario (al netto dei tassi d’interesse), quando ancora nel 2011 il Pil crollava del 7%; un circolo vizioso di tagli per riportare il pareggio di bilancio e al contempo entrate in caduta libera, in una congiuntura europea e internazionale assolutamente sfavorevole e una moneta unica non svalutabile, sia al fine di incentivare le esportazioni (turistiche, perlopiù) che per annacquare il debito. Per quanto si possa accettare l’idea che presso il FMI siedano gelidi androidi imbevuti di modelli neoclassici, si fa molta più fatica a credere che essi abbiano un’idea così grossolana dell’unica cura possibile per salvare lo stato ellenico, piuttosto che quella che i creditori (ovvero, anche loro stessi) vadano sempre tutelati, contro ogni ragionevole limite ed in un accanimento terapeutico improntato a spremere fin l’ultima stilla di sangue da una rapa che non ne vuole più sapere.

Stabilito il ruolo degli agenti esterni, bisogna però sottolineare un altro aspetto, interno alla Grecia, e ben analizzato da Francesco Daveri in un recente articolo de lavoce.info: l’economia greca è statica e povera, e lo è sempre stata, se si esclude una breve parentesi nel decennio 1998-2008. In quasi trent’anni, dal 1970 al 1997, il Pil procapite greco è cresciuto di un misero 1% annuo, perciò di circa il 30% nell’arco di un trentennio. Per capire quanto la cifra sia irrisoria, basti confrontare la crescita degli altri paesi, oggi etichettati come PIGS, nello stesso arco di tempo: 95% per Spagna e Italia, 120% per il Portogallo. A partire dal 1997, una spesa pubblica gonfiata e galvanizzata dall’assegnazione delle Olimpiadi del 2004, e l’ingresso nel club della moneta unica, che taglia improvvisamente gli interessi per i greci dando un’ulteriore spinta agli investimenti, portano il paese a una crescita del 3% annuo, insperata forse, ma facilmente spiegabile grazie ai due fattori appena accennati. Questa fase di crescita non viene però sfruttata dai governi in carica per un reale ammodernamento del mercato del lavoro, per un lungimirante investimento a lungo termine in ricerca e sviluppo di nuovi settori industriali competitivi, per una stretta sull’economia in nero e sull’evasione fiscale (mancanze, del resto, constatabili anche nel nostro paese, prima e negli stessi anni). Ciò comporta che la crisi del 2008 colpisce, e colpisce duro. Il seguito, è cronaca.

Questo dovrebbe far comprendere che un’eventuale uscita dall’Euro, o anche dall’Unione europea tout court, sarebbe una mossa che non porterebbe probabilmente a un reale sollevamento, nemmeno nel medio periodo, delle condizioni di Atene: nella migliore delle ipotesi, la Grecia potrebbe sperare di tornare a una crescita quasi nulla, che se appariva povera prima, risulterebbe misera e inaccettabile agli occhi di chi ha vissuto dieci anni di espansione ininterrotta, quella che piuttosto banalmente viene oggi etichettata come “sopra le proprie possibilità”.

Eppure è proprio su questi temi che i partiti più estremi, a sinistra come a destra, puntano per catalizzare (e pare con successo) i consensi alle vicinissime elezioni di aprile: sia Néa Dimokratía (centrodestra) che PASOK (coalizione di centrosinistra) appaiono troppo deboli per poter formare maggioranze esclusive delle correnti più estreme, dai comunisti, alla sinistra radicale (Syriza), agli ultranazionalisti di Laos. Tutti movimenti populisti che spingerebbero a gran voce verso un’inversione di rotta, ed un ritorno alla Dracma.

La possibilità di svalutare la propria moneta potrebbe certo favorire la Grecia nel brevissimo periodo, ma un’ipotesi politica come quella appena prospettata renderebbe il paese tanto instabile da far velocemente fuggire ogni capitale estero, alzando al contempo a dismisura i tassi d’interesse. Seguirebbe facilmente un’inflazione fuori controllo, fin forse al tracollo sistemico del paese. Certo, si potrebbe dire, non c’è gran differenza tra il fallire per scelta o errore proprio, piuttosto che per imposizione e pressioni esterne. Molti in Europa già pensano che i tempi siano maturi, i mercati lucidi a sufficienza per capire che la Grecia non è l’Italia, e nemmeno la Spagna. Che un tracollo ateniese non comporterebbe eccessive ripercussioni sugli altri stati e che sia l’Euro che l’Unione stessa sopravvivranno, magari crescendo anche più forti, come un albero a cui si tagliano i rami d’inverno.

La realtà, purtroppo, è una e complessa: così come nel 2008 non si potevano immaginare le conseguenze del tracollo di Lehman Brothers, nemmeno quando esso appariva oramai probabile, oggi non è dato sapere che cosa comporterebbe davvero un default convulso della Grecia. Quando ciò accadrà, leggeremo ben più dotte analisi di questa. Ma come scriveva il Manzoni, del senno di poi ne son piene le fosse.

Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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10 commenti

  1. giuseppe sparatore

    questa e’ quella parte di Europa che strozza i paesi ad economia debole,per tutelarsi di quanto fra non molto tocchera’(a causa dell’intervento della finanza speculativa internazionale)ad essi,come gia’ la Francia che ne è gia’ stata una prima volta sfiorata.Voglio significare che il debito fatto contrarre sara’utilizzato come traino per pagare(per tramite il debito da restituire) la crisi che colpira’ prima la Francia e poi la Germania

    • Una domanda da digiuno di economia. Il governo greco che cosa avrebbe potuto fare per evitare una crisi di questa entità?

      • Non avrebbe dovuto indebitarsi. 🙂 Secondo la teoria economica, l’indebitamento di per sé non è un cattivo sintomo, né un paese povero non dovrebbe prendere a prestito. Ciò che conta non è infatti la ricchezza nazionale, il Pil, ma il tasso di crescita del Pil, ossia quanto cresce un paese: un paese arretrato ma che dimostra un certo dinamismo può prendere a prestito indebitando le generazioni future se si aspetta che la crescita sia costante nel tempo. E non è nemmeno importante in realtà che il debito venga ripagato, o ridotto (punto sul quale invece l’UE si è fissata prima con l’Italia, ora in generale col Fiscal Compact), ciò che conta è che la crescita del paese sia sufficiente a compensare i costi del debito, ovvero gli interessi: se si pagano gli interessi, e certo presupponendo che il livello d’indebitamento non cresca eccessivamente nel tempo (ossia che il paese non continui a chiedere prestiti su prestiti), il debito non esplode e l’economia del paese rimane stabile.
        Chiaramente, perché un paese cresca è necessario che produca. Perché produca deve vendere, e per vendere deve esserci una domanda adeguata. Ma che cosa può offrire la Grecia al mercato internazionale, a parte il turismo? L’errore è stato di entrambe le parti: da un lato di governi che non hanno saputo o voluto guardare al lungo periodo, dall’altro di quei paesi che hanno effettivamente prestato alla Grecia (ad esempio Francia e Germania), e che non avrebbero dovuto farlo con tanta libertà. Grave soprattutto il ruolo delle agenzie di rating e accounting (che poi sono sempre le stesse, S&P, Moody’s, Fitch), che hanno spinto acché la Grecia prendesse forsennatamente a prestito, aiutando addirittura il governo a truccare i propri conti pubblici, per speculare poi esattamente sul contrario, ossia sul rischio di fallimento (che loro sì sapevano essere molto probabile) attraverso strumenti derivati.
        È interessante infine aggiungere che ai tempi della costruzione dell’Euro è stata proprio la Germania a rifiutarsi che i dati economici venissero raccolti direttamente dall’Eurostat, ovvero che uomini dell’UE avessero accesso libero a spulciare i conti di tutti i paesi europei, ma che invece fossero i singoli paesi a fornire i conti all’Europa, che li avrebbe poi aggregati. Un controllo più stringente a livello sovranazionale non avrebbe certo lasciato spazi per i greci di ritoccare i propri conti, mentre una politica volta al futuro e non alle prossime elezioni non avrebbe portato a un aumento esponenziale del debito ellenico.

        Spero di aver in parte risposto alla Sua domanda.
        Cordialmente,

        fil.stef.

      • giuseppe sparatore

        penso che non manchino le scelte di economie nazionali che operano nella globalizzazione ma perseguendo una politica economica di sviluppo e crescita scorporata dalla logica euro-centrica di GERMANIA E FRANCIA che di fatto operano come il F.M.I.,contrastando le realtà socio-politiche dei paesi infettati da questa presenza SALVIFICA che con i suoi progetti,relega in un BUCO NERO quegli stati che ad essi si rivolge

  2. giuseppe sparatore

    E’ stato detto anche da “eminenti”(nenti in lingua/dialetto siciliano significa NIENTE)che l’economia globalizzata doveva essere canalizzata verso una moneta unica dando così l’opportunità ad ogni stato di affrancarsi(gradualmente)economicamente e quindi non condizionabile finanziariamente dalla speculazione internazionale.Tuttavia queste”EMINENZE”del pensiero/scuola internazionale hanno scientemente trascurato di analizzare e studiare i risultati dell’economia globalizzata e della moneta unica in SUD AMERICA con capi intesta l’ARGENTINA.Questo esperimento fu eseguito a cavallo tra gli anni ’60-’70(se non erro)

    • Gentile Giuseppe,
      il discorso sulla moneta è molto complesso e ben più difficile di quanto io sia capace di tradurre in un articolo. Il concetto di moneta è però anche alla base delle crisi cicliche che attanagliano l’impianto economico globale moderno. Se Lei è interessato a questi temi, come anche al ruolo storico della moneta, le consiglio caldamente due libri, da affrontare con molta calma e pensiero: “Le radici di una fede” (Massimo Amato, Bruno Mondadori Editore), e “Fine della finanza” (Massimo Amato e Luca Fantacci, Donzelli Editore).

      Cordialmente,
      fil.stef.

      • Sig.Filip.Stef.La ringrazio per il suggerimento che certamente si attaglia alla complessità dell’argomento che in questo momento ci sta interessando e per rimanere in argomento desidero qualche spunto/provocazione(nel senso buono del termine)per valutare al meglio come si muovono le economie di quei paesi che non si muovono nell’area dell’euro.Grazie.Annotazione:le nostre relazioni hanno una corrispondenza di orario,è da registrare come futura congruenza?Gius.Spar.

        • Guardi, non sono certo cosa intende con le economie non-euro, i paesi europei non nell’Eurozona o a livello globale tutte le economie esterne alla moneta unica? In ogni caso, il problema non è questo: qualsiasi sia la valuta utilizzata dai paesi moderni, la moneta è ontologicamente la stessa, perché trattata come tale. Nei corsi di economia monetaria si definisce solitamente la moneta come portatrice di tre caratteristiche fondamentali: 1) la moneta come unità di misura, 2) la monetà come mezzo di scambio, 3) la moneta come riserva di valore. La tesi dei due autori che ho citato è che innanzitutto la moneta non è stata sempre la stessa nel corso dei secoli, e che solo in età moderna essa ha assunto la forma che oggi le attribuiamo, e che non è vero che la moneta sia riserva di valore, tanto più da quando è stata fatta saltare definitivamente la convertibilità con l’oro: la moneta è una merce come un’altra, peculiare, certo, in quanto il suo valore è basato unicamente sulla fiducia che noi le accordiamo, ma che come tale non ha motivo di essere incamerata. Una moneta pensata come bene accumulabile, liquido e illiquido allo stesso tempo, è il problema di fondo dell’economia moderna, perché conduce a bilance commerciali che non possono essere ricondotte al pareggio, quindi a debiti che non vengono ripagati. La finanza moderna, fondata su questo concetto di moneta, si è concentrata negli ultimi vent’anni nell’implementazioni di strumenti derivati, quali la cartolarizzazione, che avevano l’unico scopo di rendere sicuro il debito, spersonalizzandolo e protraendolo ad infinito nel tempo, non ponendo più un limite temporale al suo ripagamento. Il debito, reso così liquido, è diventato tutt’uno con la moneta. Ciclicamente, crolli della fiducia nei mercati finanziari portano a un istantaneo blocco di questa enorme leva creditizia, nella quale tali debiti tornano a essere ciò che sono realmente: carta straccia. La soluzione sin qui proposta è stata sempre la stessa, ossia l’iniezione di nuova moneta-debito che ridesse liquidità ai mercati, facendoli partire nuovamente.

          La mia è francamente una sintesi molto rozza di cui mi vergognerei in ambiti più formali, ma che le lancio con l’unica speranza di incuriosirla a sufficienza da prendere in mano i libri sopracitati. 😉 In particolare, le consiglio di partire proprio da “Fine della finanza”, in quanto tratta della crisi attuale, pur con ampio spazio storico, e offre una soluzione insperata al modello economico attualmente in vigore. Leggendolo, capirà quanto i problemi di cui discutiamo tutti i giorni non scalfiscono che la superficie di quelli che hanno veramente causato la crisi (e che, ora come ora, causeranno anche la prossima). Non mi fraintenda però, si tratta di analisi molto seria, e non dei soliti volumetti su cospirazioni globali della finanza, fili invisibili, ordini mondiali o spazzatura varia! La realtà è sempre molto più complessa.

          Ora purtroppo devo staccare, la nostra congruenza, per oggi, si chiude qui. 🙂

          Buona serata!!

          Filip Stefanovic

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