Bibi and the Freedom Flottilla's

“A chi ha in mano un martello ogni problema sembra un chiodo”. Quando il martello si chiama Tsahal (Israel Defence Forces) e il chiodo Hamas (o Gaza o Palestina) il risultato finale non potrà che essere una crepa sul muro. O addirittura il crollo del (già) fragile edificio chiamato Medio Oriente. Il proverbio citato da Amos Oz nell’editoriale pubblicato giovedì 3 giugno su Repubblica calza a pennello con il disastro (chè solo di disastro si può parlare) dell’operazione condotta in acque internazionali dalle forze armate israeliane contro la Freedom Flotilla, la nave carica (ufficialmente) di aiuti umanitari e diretta verso la Striscia, sotto embargo ormai da più di quattro anni. Dal coup di Hamas nel 2007, che ha di fatto spaccato in due la società palestinese, con un governo de facto a Gaza a controllo islamista, e con la Cisgiordania sotto il controllo di Fatah.

Una flotta di pacifisti filopalestinesi (secondo qualcuno, secondo molti “qualcuno”), un’armata Brancaleone di aspiranti shahid (martiri) amici di Hamas e carichi di armi (secondo altri). 610 persone (44 parlamentari di varie nazionalità) salpate dalle coste di Cipro, su navi battenti bandiere americana, turca, greca e svedese. A bordo anche sei italiani (tra cui la torinese Angela Lano, di Infopal), oltre a quattro cechi, due bulgari, tre macedoni, un serbo, un bosniaco e un kosovaro. Tutti arrestati e poi rimpatriati, mentre le navi sono state sequestrate. Sono stati però i turchi a pagare il prezzo più alto: fra le nove vittime, in seguito agli scontri partiti sulla nave Mavi Marmara non appena il primo soldato ha messo piede sul ponte, otto erano cittadini turchi e uno era un cittadino americano di origine turca.

“Terrorismo di Stato”, lo ha subito definito Erdogan, mentre le strade di Istanbul si riempivano di manifestanti e i principali governi europei stigmatizzavano diplomaticamente le azioni israeliane. “Niente sarà più come prima”, titolavano poche ore dopo il blitz di Tsahal i principali quotidiani turchi, lasciando prevedere un facile deterioramento dei rapporti tra i due paesi. Tradizionalmente Istanbul è sempre stata l’alleata numero uno di Tel Aviv nella regione, non solo commercialmente. Da Ankara il presidente Abdullah Gul ha usato parole dure, forse definitive: “I rapporti non saranno mai più gli stessi, hanno subìto un danno irreparabile. Israele ha commesso un errore di cui dovrà pentirsi. Quanto è accaduto è un fatto molto importante e sarà ancora seguito a lungo”. L’assalto al convoglio navale, ha detto ancora Gul, “non è un argomento che si può dimenticare, o che si può far dimenticare o che si può nascondere. Ha innescato delle conseguenze irreparabili”.

Stranamente reattiva, anche l’Onu – con l’astensione di Stati Uniti, Italia (ahinoi) e Olanda – ha messo ai voti l’ipotersi di aprire un’inchiesta sull’assalto, mentre Obama ha gentilmente chiesto a Bibi (Netanyahu) di aprirsela lui, una commissione d’inchiesta, “trasparente”, please. Ché i governi democratici se li lavano in casa, i panni sporchi. Ma il problema è che secondo Israele non c’è nessun panno sporco da lavare, c’è solo un embargo da mantenere a tutti i costi, anche umani. Un embargo che secondo il governo a guida Likud va mantenuto perché unico garante della sicurezza del paese. Un porto di Gaza aperto al mondo, significherebbe infatti presto un porto di Gaza in mano a Teheran. E’ questo il ragionamento di Bibi ed è questa iranofobia a condurre la politica folle del governo israeliano. Una prigione a cielo aperto che rimarrà tale fin quando Hamas resterà al potere; o forse fin quando il Likud non perderà la fiducia degli israeliani (o del mondo). I suoi bei passi in avanti in questa direzione li sta facendo, e l’episodio Freedom Flotilla rappresenta un balzo in avanti nella versione shahid in salsa israeliana.

Foto: Peace Palestine

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