EUROPA FUTURA: L'attualità di Altiero Spinelli. Parola a Stefano Rossi, giovane, europeista e federalista

Stefano Rossi, classe 1986, da diversi anni membro della sezione di Torino della Gioventù Federalista Europea (Gfe) – gruppo giovanile del Movimento Federalista Europeo – di cui  è Tesoriere nazionale e fa parte della Direzione nazionale.
Laureato in giurisprudenza nel 2010 sta facendo la pratica presso uno Studio associato in Torino. East Journal lo ha intervistato sul presente e sul futuro dell’Unione Europea, una voce giovane e impegnata per capire quale destino attende il vecchio continente.

Che cosa vuol dire essere “europeisti” e cosa vuol dire credere in un progetto europeo di tipo federalista? Da dove proviene l’idea federalista europea? Qual è la sua storia?

Essere europeisti significa aderire all’idea di un’Europa unita; questa idea, che è profondamente politica, può essere declinata in molti modi. I federalisti, in particolare, credono che lo strumento concreto per realizzare l’unità europea sia la creazione di una federazione tra gli Stati d’Europa. In un certo senso i federalisti sono europeisti con un progetto politico-istituzionale chiaro e determinato.

La teoria federalista ha molti padri: primo fra tutti, Immanuel Kant. Tuttavia, dovendo rispondere in poche righe (rimando per approfondimenti al sito del Movimento Federalista Europeo), la battaglia politica per la federazione europea prende concretamente forma nel 1941, mentre in Europa imperversa la seconda guerra mondiale. Altiero Spinelli, antifascista confinato dal regime sull’isola di Ventotene, scrive insieme uno sparuto gruppo di federalisti il Manifesto di Ventotene. A partire da quegli anni, le più grandi battaglie dei federalisti sono state l’elezione diretta del Parlamento, la moneta unica,la Costituzione europea.

Il movimento federalista europeo cosa fa? ritieni che sia sufficientemente noto? e la sua azione incisiva?

Il MFE agisce sulla società e sulla classe politica per proporre e sostenere la creazione di uno Stato federale europeo. La strategia viene decisa democraticamente tramite gli organi statutari, il Congresso prima di tutti. L’azione del MFE si articola in campagne, che individuano obiettivi strategici, tappe per il cammino verso lo stato federale. Concretamente, le sezioni locali, i centri regionali e quello nazionale organizzano eventi del più vario genere (conferenze, caffè europei, raccolte firme, manifestazioni, comunicati, ecc.) per portare le nostre istanze alla classe politica e chiedere il sostegno della cittadinanza. Il MFE non ha mai cercato appoggi stabili dai partiti o da altri centri di potere: questa scelta ha garantito la massima autonomia politica ma insieme non ci permette di raggiungere la visibilità mediatica di cui godono i partiti nazionali.

Per quanto riguarda l’incisività della nostra azione, posso dire che, definendoci un movimento di avanguardia, il nostro ruolo è in prima battuta quello di formulare proposte e indicare strumenti convincenti per affrontare le sfide del nostro tempo. È evidente che ci spendiamo per sostenerli e portarli avanti, ma per questo non si può prescindere dall’appoggio dei cittadini e dei politici.

Secondo alcuni critici, le strutture istituzionali dell’Unione europea non garantiscono un’adeguata rappresentanza democratica ai suoi cittadini; le principali funzioni sono infatti attribuite al Consiglio dell’Unione europea e non al Parlamento europeo, che è investito di poteri relativamente più limitati. Cosa ne pensi? Credi che l’attuale sistema di rappresentanza sia adeguato? Come ne immagineresti uno alternativo?

L’Unione europea soffre di un deficit democratico che è sotto gli occhi di tutti. La grande contraddizione risiede nel semplice fatto che l’UE oggi detiene una porzione di sovranità che è molto più estesa di quella che normalmente hanno le organizzazioni internazionali, ma ciononostante agisce ancora con molti degli strumenti delle classiche organizzazioni internazionali (il metodo intergovernativo è un chiaro esempio di ciò). Dal momento che gli Stati hanno attribuito competenze importanti e diffuse all’UE, questa deve iniziare a rispondere alle regole democratiche e abbandonare gradualmente (processo che, invero, è in corso già da anni) la sua natura di organizzazione internazionale. Scendendo nel dettaglio, il Parlamento europeo ha dei poteri che sono sensibilmente cresciuti con il Trattato di Lisbona, ma restano ancora ampiamente inadeguati. È necessario sviluppare il modello di governance dell’UE (da giurista lo chiamerei più propriamente “forma di governo”) verso un sistema di governo realmente democratico: maggiori poteri all’organo legislativo, responsabilità della Commissione nei confronti del Parlamento, trasformazione del Consiglio in una seconda Camera (“camera alta”, rappresentativa degli Stati). Questo può essere un modello per garantire la democrazia in Europa, o meglio, per spostare la democrazia al livello sopranazionale, che sempre di più prende decisioni fondamentali per la collettività.

Con l’attuale crisi economica e finanziaria assistiamo a un’Europa a guida franco-tedesca. Alcuni lo chiamano “direttorio”, termine che richiama l’ultimo periodo della Rivoluzione francese, un periodo certamente non democratico. Ritieni che siano suggestioni fondate? L’Europa è oggi in deficit democratico?

Riprendendo la risposta di prima, i fatti di questi mesi mettono chiaramente in luce la contraddizione dell’UE: poteri che tipicamente sono degli stati, a fronte di metodi decisionali caratterizzanti le organizzazioni internazionali. Francia e Germania stanno giocando il ruolo che compete loro in quanto sono le uniche che possano guidare l’uscita dalla crisi della zona Euro. Senza un deciso passo verso istituzioni realmente democratiche in Europa (e penso alla soluzione federalista), la democrazia in questa fase rischia di diventare uno dei beni sacrificabili per salvarsi.

Alla luce della crisi economica in corso, in buona parte dell’opinione pubblica si fa strada un sempre più marcato dissenso verso le istituzioni economiche europee tese a ricapitalizzare banche, tagliare tassi, comprare titoli, imporre misure ai singoli stati, senza apparentemente curarsi del benessere dei cittadini. Tu cosa ne pensi, e quali vie d’uscita indicheresti per far riavvicinare i cittadini europei al progetto unitario?

Voglio subito dire che a mio parerela BCEsta agendo con grande responsabilità, lungimiranza ed equilibrio, nel pieno interesse dei cittadini europei. Nonostante i trattati non le consentano di fare politica economica, ma solo monetaria (situazione che si è rivelata insostenibile),la BCEha comunque deciso di acquistare titoli di stato sul mercato secondario. Questa è una scelta di politica economica:la BCEutilizza fondi comuni degli Stati per intervenire in solidarietà di uno Stato. Senza questa azione di difesa, formalmente in violazione dei trattati, probabilmente Italia e Grecia sarebbero fallite, e oggi l’Euro non esisterebbe più. E questo scenario non può essere auspicato da nessuna persona responsabile.

Le misure “imposte”, come ha detto bene Scalfari in una recente intervista, non devono essere considerate come un condizionamento esterno: siamo tutti cittadini europei ela BCEè la nostra banca centrale.

Per rispondere alla domanda, i cittadini che non lo hanno ancora fatto devono rendersi conto che l’Europa è il nostro necessario orizzonte politico per il futuro, e le alternative nazionalistiche non sono né fattibili né tantomeno desiderabili. Il progetto di unificazione europea è la realizzazione di un nuovo livello di identità che si aggiunge a quello locale, regionale e nazionale, per poter continuare a decidere il proprio futuro e potersi confrontare con le altre realtà continentali e globali. Il compito di far comprendere questa nuova realtà spetta in parte agli organi di informazione, ma in primo luogo ai politici.

Quanto è rilevante, nel processo di costruzione di un’Europa unita, la costituzione di un esercito comune europeo? Un’Unione europea sovrana e militarmente autonoma non rischierebbe di cedere a derive imperialiste?

Un esercito comune significa prima di tutto risparmiare una notevole quantità di risorse da dedicare ad altre priorità (abbattimento del debito, crescita, istruzione e ricerca, ad esempio). I dati sono sotto gli occhi di tutti: oggi la spesa militare dei 27 supera quella degli Stati Uniti, ma l’efficacia dell’azione militare USA è molto maggiore. Per non parlare degli investimenti nella ricerca militare, i costi di logistica e la moltiplicazione di organismi di comando. Partendo dal presupposto che tutti i 27 hanno un esercito, noi diciamo che mettendo insieme gli sforzi tutti potrebbero, a parità di efficacia esterna, risparmiare una grande quantità di risorse.

A chi obietta una possibile deriva imperialista, faccio notare solo un dato: l’Europa politica è nata per garantire la pace e il rispetto dei diritti umani, questo è scritto nei trattati. L’esportazione della democrazia fatta “all’americana” ha dato i risultati che tutti possiamo vedere; quella all’europea, fatta per allargamento dei confini UE e tramite l’imposizione di requisiti di ingresso (adesione alla CEDU, garanzia di determinati standard di rispetto dei diritti, ecc.), è ad oggi la meglio riuscita estensione pacifica di regole democratiche.

Inoltre le spinte espansive di alcuni Stati (vedi la politica interventista francese in Libia) sarebbe controbilanciata dalla linea di molti altri paesi comela Germaniache interventisti non sono.

Come valuti la politica estera europea?

Assolutamente insufficiente: troppo timida, affidata alla persona sbagliata, priva degli strumenti necessari. Ormai tutto il mondo ci chiede di parlare con una voce sola: gli Stati Uniti, ad esempio, si sono espressi in maniera molto convinta a riguardo. Il passo politico-istituzione mancante, al di là delle ragioni tecniche, è l’adozione del voto a maggioranza in materia.

Come valuti il silenzio europeo nei confronti del genocidio ceceno?

Frutto di posizioni frammentate e deboli da parte degli Stati, che, impauriti dalla Russia, hanno deciso di non affrontare il problema. Premesso che lo scarso coraggio del Parlamento europeo e dell’Alto rappresentante per la politica estera sono assolutamente criticabili, finché non ci sarà una politica estera comune prevarranno le divisioni tra i 27 ela Russiapotrà continuare a ignorare le timide proteste degli europei.

Cosa pensi dei progetti di approvvigionamento energetico in via di realizzazione? Da un lato l’europeo Nabucco, cui Francia, Germania e Italia non partecipano. Dall’altro il north e south stream russi che vedono impegnate le principali società energetiche europee, tra cui Eni.

La politica energetica rientra nel più ampio discorso della politica estera. Sul tema, vale una sola regola: l’unione fa la forza. Gli Stati continuano ad andare ogni per la propria strada, illudendosi così di tutelare la loro sovranità: quello che in realtà tutelano sono gli interessi forti che dentro e fuori dall’UE indirizzano le politiche energetiche. Personalmente non sono contrario ad accordi conla Russia, perché intessere accordi commerciali è l’unico modo per poter esercitare pressione su altri temi, come quello dei diritti umani. D’altra parte coinvolgerela Turchiacon il progetto Nabucco potrebbe avvicinare il suo ingresso e aprire un importante canale economico e politico con la zona mediorientale.

È evidente però che decisioni come queste devono essere prese a livello europeo, perché a quel livello si può agire efficacemente e nel vero interesse dei cittadini europei.

Cosa pensi dell’allargamento ad est per come è fin qui stato gestito? come pensi debba svilupparsi?

Il tema è molto complesso e di non facile analisi. C’è chi sostiene che allargamento significa indebolimento delle basi comuni. Io vedo l’allargamento, in prima battuta, come estensione delle regole democratiche in zone che fino a ieri erano sotto regimi dittatoriali. Da questo punto di vista l’allargamento è stato un grande successo.

Come federalisti ci siamo spesso chiesti se questo fenomeno sia di intralcio alla creazione di uno Stato federale, ma la conclusione più convincente, a mio parere, è che i passi in avanti più significativi possono anche essere fatti in un primo momento da pochi Stati: pensiamo ai soli componenti della zona Euro, che sono oggi molto incentivati a superare la crisi nel segno dell’unificazione. Se l’esperimento si rivelerà un successo, saranno gli stati rimasti “fuori” a spingere per entrare in forme istituzionali più intense e potranno farlo a patto di rispettare i requisiti per l’ingresso. Questo d’altra parte è stato lo schema per il processo di allargamento della zona Euro e della zona Schengen, aree di cooperazione rafforzata nate da pochi e poi estese.

Come valuti l’ingresso della Turchia nell’Unione?

La Turchiaè un partner strategico ed economico insostituibile. Dobbiamo coinvolgerlo nel progetto europeo prima che si rivolga altrove.

Ciò premesso, bisogna comprendere che è un paese che vive molte contraddizioni: il fatto che faccia parte di due diversi continenti, è già abbastanza significativo. La questione religiosa e del rispetto dei diritti umani non è da sottovalutare, ma per questo l’UE richiede requisiti ben definiti a tutti i paesi candidati all’ingresso. Se l’UE sarà abbastanza “attrattiva” perla Turchia, quest’ultima dovrà lavorare seriamente per soddisfare tali requisiti e ciò sarebbe già una grande conquista.

Come si può costruire un’Europa unita, forte e coesa senza agire sulle diversità “centrifughe” che la compongono. Il rischio non è l’omologazione?

Sicuramente questa è una sfida (forse LA sfida) per la creazione di una federazione, ma sono convinto che considerando le diversità come ricchezza per l’Europa e concentrando la coesione sui grandi principi etici e filosofici che ci uniscono (il rispetto per la persona umana e i suoi diritti, la tutela della libertà, la lotta alla discriminazione, ecc.) possiamo arrivare a risultati sorprendenti.

Non dobbiamo poi dimenticare che il progetto della federazione va proprio nella direzione indicata dal motto dell’UE (“uniti nelle diversità”).La Federazioneeuropea non è un super-stato che sostituisce gli stati esistenti, ma semmai il superamento dei limiti degli stati-nazione europei, strutture ormai datate e che la globalizzazione rischia di spazzare via. L’Europa non propone, insomma, una nuova identità nazionale omologante, ma aggiunge una nuova identità (la cittadinanza europea) a quelle che già viviamo quotidianamente. In un certo senso questa identità è già nostra, perché quelli della nostra generazione sono nati europei, oltre che italiani.

Pensando anche alle extra-territorialità, quali sono i confini dell’Europa e fin dove può legittimamente estendersi l’Unione Europea?

Per rispondere a questa domanda vorrei alzare la prospettiva. Immagino un mondo in cui gli stati oggi esistenti si uniscono in grandi federazioni continentali o subcontinentali. Questo disegno in parte già c’è, alla luce delle grandi federazioni esistenti (Stati Uniti, Federazione russa, India, Brasile). Ci sono poi aree ancora divise: pensiamo ad Africa, Sud America, Medio Oriente (queste ultime due stanno facendo tuttavia molti passi in avanti verso la creazione di istituzioni comuni).

L’Europa trova il proprio posto all’interno questo sistema, tra queste famiglie di popoli, comunità politiche sovrastatali.

Non mi chiederei quindi fin dove legittimamente l’Europa può estendersi, ma piuttosto quali popoli intendono far parte della famiglia dei popoli europei.

L’Unione europea, da questo punto di vista, è una grande rivoluzione nella storia, in quanto nuova comunità politica che si costruisce per adesione e non per conquista.

Esprimendoti nel dibattito in corso, quali sono le radici dell’Europa?

Il tema sarebbe vastissimo. Lascio a storici e filosofi capire se “non uccidere” è un comandamento divino o un imperativo morale. Quello che posso dire è che le due guerre mondiali (che per alcuni sono una sola guerra inframmezzata da una lunga tregua) hanno significato la tragedia e insieme la rinascita – conla Resistenza, fenomeno europeo – dell’Europa. Volendo, possiamo tornare alla Rivoluzione francese come momento di fondazione dello Stato moderno (laico) europeo, o andare ancora più indietro a studiare la nascita della cultura moderna con le Università, dove nel 1200 si riscopre il latino come lingua comune europea.

Sono tutte riflessioni importanti, ma credo che in definitiva le radici comuni del demos europeo consistano nell’adesione a quelle regole e principi di convivenza che troviamo nelle Costituzioni nazionali e riscritte nei Trattati europei (come sistema UE e Consiglio d’Europa, intendo).

Alla luce di tutte le mancanze, i limiti presenti e futuri, i boicottaggi dei singoli stati, le disaffezioni, il deficit democratico, la crisi economica, ha ancora senso pensare all’unità europea? e perché?

Non solo ha senso parlare di unità europea, ma credo che abbia senso anche spendere il proprio impegno politico per realizzarle. Perché, se vogliamo avere gli strumenti per affrontare le sfide della globalizzazione e del futuro, non abbiamo alternative.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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