BOSNIA: Wahhabismo, antecedenti e sviluppi

L’attacco all’ambasciata USA a Sarajevo ha riportato l’attenzione sul ruolo del radicalismo islamico nella Bosnia odierna e sulla minaccia che può arrecare alla stabilità politica e alla convivenza civile. Vale la pena ricordare i due principali antecedenti: l’attentato alla caserma di Bugojno, città della Bosnia centro-occidentale, dove nel giugno 2010 una bomba uccise un poliziotto; la violenta aggressione contro il Queer Sarajevo Festival nel settembre 2008, quando esponenti wahabiti ferirono e minacciarono gli ospiti del QSF. L’Agenzia per la Sicurezza e l’Intelligence (OSA) ritiene che gli wahabiti in Bosnia siano circa 3.000. Alcuni, come l’esperto in anti-terrorismo Dževad Galijašević, considerano che questa cifra vada rivista al rialzo. Tuttavia il radicamento territoriale e la capacità di coordinamento di questi movimenti sembrano ancora, al momento, relativamente contenuti, e non giustificano quelle semplificazioni e paranoie mediatiche sempre in voga, nei media occidentali, riguardo a una possibile deriva fondamentalista in Bosnia-Erzegovina.

A preoccupare gli analisti e l’opinione pubblica, più che l’efficacia attuale, è il potenziale di crescita del radicalismo islamico in Bosnia. Sono due i principali fattori di allarme; il primo, la relativa facilità nel trovare armi e materiale per possibili attentati nella Bosnia post-guerra; il secondo, la capacità di fare breccia sui giovani, offrendo un apparente rimedio alle loro frustrazioni tramite l’indottrinamento, la militanza e le pratiche sociali di tipo integralista. Il protagonista dell’attacco all’ambasciata USA, Mevlid Jašarević, ha solo 23 anni. Così come giovani sono molti dei frequentatori di Gornja Maoća, la base operativa del radicalismo islamico in Bosnia.

Le forze di sicurezza bosniache avevano già compiuto diverse indagini sugli wahabiti: risale al febbraio 2010 la prima operazione di polizia a Gornja Maoća, un intervento in grande stile, con l’insolita partecipazione congiunta delle polizie delle due entità (Republika Srpska e Federazione BiH). Eppure, le indagini e la prevenzione furono tutt’altro che efficaci: solo 4 mesi dopo vi fu l’attentato di Bugojno. Lo stesso si può dire per il caso di Jašarević, di cui profilo personale, frequentazioni e movimenti erano arcinoti alla polizia, ma ciò non ha impedito che il ragazzo si presentasse armato e indisturbato davanti all’ambasciata statunitense.

Sull’efficacia investigativa influisce negativamente la dispersione d’informazioni e coordinamento tra i diversi servizi di sicurezza bosniaci, la OSA (Agenzia per la Sicurezza e l’Intelligence) e la SIPA (Agenzia Statale di Investigazione e Protezione), senza contare le polizie di entità, cantonali e di frontiera. È emblematica la confusione su un particolare determinante per lo svolgimento delle indagini sull’attacco all’ambasciata: l’informazione su quando Jašarević abbia fatto ingresso in Bosnia. Secondo il direttore dell’OSA, ciò è avvenuto in mattinata lo stesso giorno dell’attacco, ma il vicedirettore della Polizia di frontiera ha smentito, affermando che l’attentatore si trovava in territorio bosniaco sin dal mese di agosto.

È evidente e quasi scontato rilevare che il radicalismo trova terreno fertile nel clima di fanatismo permanente, propagato dai partiti nazionalisti e da buona parte delle élites politiche bosniache. Ma l’estremismo religioso è solo uno delle valvole di sfogo del disagio economico e sociale. Vlado Azinović, docente di Studi sulla Sicurezza all’Università di Sarajevo, avverte su tre possibili fattori di destabilizzazione: attacchi di gruppi estremisti, scontri tra gruppi ultras, minacce agli ex-profughi rientrati dopo la guerra. Nell’ultimo mese si sono già realizzate le prime due condizioni: prima i gravi scontri tra gruppi ultras a Banja Luka, Mostar e Sarajevo; poi, l’attacco all’ambasciata USA. In assenza di interventi investigativi e risposte politiche all’altezza, queste minacce rischiano di diventare più di un semplice potenziale.

Chi è Alfredo Sasso

Dottore di ricerca in storia contemporanea dei Balcani all'Università Autonoma di Barcellona (UAB); assegnista all'Università di Rijeka (CAS-UNIRI), è redattore di East Journal dal 2011 e collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. Attualmente è presidente dell'Associazione Most attraverso cui coordina e promuove le attività off-line del progetto East Journal.

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3 commenti

  1. ANTONIO EVANGELISTA

    SONO UN FUNZIONARIO DI POLIZIA E HO PRESENTATO IN QUESTI A GIORNI A PECHINO, UN DOCUMENTO…PUBBLICO….SULLA PROBLEMATICA SE E’ INTERESSATO LE POSSO MANDARE L’ANALISI CHE HO PRODOTTO SULL’ARGOMENTO…….ANCHE SE CI SAREBBE DA SCRIVERE E DIRE DI PIU’.
    ANTONIO EVANGELISTA

    • Egr. dott. Evangelista

      ci interessa eccome. Conosco il suo libro, “La torre dei crani”, di cui mi mandò il pdf mesi fa e di cui mai – colpevolmente – ho prodotto una recensione. La contatterò privatamente nei prossimi giorni in modo da accordarci. Grazie ancora

      Matteo Zola

      • ANTONIO EVANGELISTA

        allora aspetto un suo riscontro… per quanto concerne jasarevic,
        oltre alla torre dei crani, suggerisco la lettura di MADRASSE in cui
        ho affrontato, un paio di anni addietro, la problematica dei “foreign fighters” o guerrieri santi…, credo si trovi ancora in libreria…diversamente le posso inviare pdf.
        buon lavoro.
        antonio evangelista

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