SLOVACCHIA: Il referendum fallito e la democrazia diretta

di Gabriele Merlini

Buona parte delle foto pubblicate dai quotidiani slovacchi tra domenica e lunedì -ossia i due giorni successivi al fallito referendum di sabato- ha come soggetto una coppia di scrutinatori in una stanza deserta; luce radente e spazi vuoti, geometrie e solitudini, per molti aspetti torna alla mente la desolante magnificenza delle tele di Hopper. La tendina dietro la quale esercitare il voto viene ritratta tesa e ben tirata ma tutto lascia presupporre che nessuno dietro stia esercitando un bel niente, mentre alcune bandiere non schioccano al vento anzi penzolano mosce a ridosso della cattedra (anche qui, in molti casi si vota dentro cupe aule scolastiche).

E d’altronde i numeri parlano chiaro: solo il ventitré percento circa degli elettori si è preso la briga di rispondere alle sei domande che venivano proposte, a fronte del necessario quorum del cinquanta. Breve bignamino referendario con quarantotto ore di ritardo: quesiti su abolizione dei canoni radiotelevisivi, limitazioni delle immunità parlamentari (favorevoli allo scudo un notevolissimo 1.73 percento della popolazione) e diminuzione del numero dei deputati da centocinquanta a cento; tetto massimo al costo e l’acquisto delle auto blu governative e introduzione del voto online, più cancellazione del diritto di replica di funzionari pubblici «ai sensi della vigente legge locale sulla stampa».

Magari niente di così appetibile per quanto i guai del metodo referendario siano identici in Slovacchia come in qualsiasi altro luogo sulla Terra: buchi l’acqua se non proponi scenari che realmente siano capaci di smuovere gli animi, mettendo sul piatto della bilancia cambiamenti percepiti come sostanziali e imprescindibili (esempio, l’unico referendum che a Bratislava e dintorni abbia colpito nel segno: era il duemilatré e in ballo c’era l’entrata nella Unione Europea. In quel caso ebbe successo sfiorando il cinquantatré percento degli aventi diritto. Le altre quattro volte -1994, 1998, 2000, 2004- mai si è neanche avvicinata la soglia).

Alcune cifre al riguardo: l’organizzazione del referendum di competenza del Ministero degli Interni è costata circa sei milioni di euro, tutti a carico del bilancio dello stato. Ma per il conteggio è intervenuto pure l’Ufficio Nazionale di Statistica al prezzo di circa un milione e duecentomila euro, facendo così lievitare il costo complessivo del sabato alle urne a circa sette milioni e duecentomila euro. Il fatto di non avere raggiunto il quorum era possibilità ampiamente pronosticata e per questo neanche i partiti dell’opposizione che avevano invitato la cittadinanza a restarsene in casa (Smer e Sns) hanno cantato vittoria, limitandosi a certe espressioni velatamente soddisfatte.

Viceversa piuttosto convinti -dunque delusi- si erano detti i leader dei movimenti interni alla coalizione di governo, nonché il premier Iveta Radičová, i quali hanno comunque sottolineato come molti tra i punti toccati e ignorati nei quesiti si trovino anche nel programma dell’esecutivo, per cui nessuna paura. Tuttavia, nonostante il suddetto prevedibile fallimento della intera operazione, qualche nota sulle cause della debacle può essere proposta; le elenca perfettamente Lukáš Fila in un articolo apparso sullo Slovak Spectator. Bene una discussione riguardo l’immunità per coloro che governano ma la faccende delle limousine di stato vale una chiamata alle urne? Poi, bene l’idea di proiettarsi con convinzione in un praticissimo futuro di elezioni 2.0 ma introdurre il voto online -in una realtà nella quale comprare preferenze resta faccenda discretamente diffusa- non risulterà un azzardo?

Inoltre cambiare le regole della stampa in una direzione più trasparente è sempre intento gradevole ma persino il Ministro della Cultura ha ammesso nei giorni scorsi come «di questi tempi la faccenda non possa assolutamente essere percepita come priorità» (senza contare il diverso approccio al voto dimostrato da politici della maggioranza: infatti, se Mikuláš Dzurinda del SDKÚ aveva garantito piena adesione all’iniziativa, Ján Figeľ dei cristianodemocratici prontamente ha chiarito che sabato avrebbe avuto di meglio da fare. Le incertezze al riguardo del Presidente della Repubblica Gašparovič sono state ampiamente sbandierate da stampa e radio e non hanno certo facilitato l’adesione popolare). In conclusione il sapore della democrazia diretta è sempre gustoso e invitante e dispiace quando tocca annotare un diserzione così marcata della cittadinanza; una via d’uscita -e qui ritorno a citare Lukáš Fila- sarebbe smettere di proporre referendum assurdi. Opzione intrigante, senza dubbio.

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